Recensioni / ARCHITETTURA ITALIANA 1945-2000 Diverse idee di ricostruzione

Un libro di Carlo Melograni e una mostra alla Triennale di Milano condividono la necessità pur da punti di vista diversi di ripensare le vicende del nostro Paese a partire dall'epopea della ricostruzione dopo il trauma del secondo conflitto mondiale. Più di mezzo secolo è da allora trascorso e la naturale riluttanza dello storico a ricostruire vicende di cui era stato testimone, può essere considerata una remora superata.
Ci provò per primo nel 1982 Manfredo Tafuri con un taglio fortemente autoriale e quasi dieci anni dopo Francesco Dal Co con la regia di lettura per frammenti, affidati a un gruppo selezionato di studiosi. A maggior ragione oggi la distanza temporale consente una prospettiva di più lunga durata mentre gli scenari dell'architettura sono talmente mutati da influenzare la produzione di nuove interpretazioni. Non a caso, la tesi di Carlo Melograni che per il suo diretto coinvolgimento nella storia di cui narra può considerarsi un Erodoto moderno è quella che «nel nostro paese i conti con l'architettura funzionale vanno rifatti da capo». Insistendo sulla specificità della nostra condizione nazionale, sul mito delle tradizioni locali e dell'artigianato costruttivo ci siamo progressivamente rinchiusi in un bozzolo di autocompiacimento, tenendo fuori dalla porta i problemi della crescita indiscriminata, dell'assalto al territorio, della mancanza di infrastruttura. In poche parole alla crudezza della realtà abbiamo preferito l'evasione nella poesia. «Dovremmo invece dice Melograni tenere spalancate porte verso l'esterno» perché «l'impegno sociale distingue la vera dalla falsa modernità; si può dire la modernità dalla modernizzazione».
La tesi è cruda, l'analisi impietosa, rafforzata da una scrittura senza fronzoli che ha il piglio del discorso a braccio. Molte le vittime illustri sul campo (incluso il grande Carlo Scarpa), ma la forza del ragionamento sta nella netta evidenza di un punto di partenza che è anche un ideale, se non un punto di arrivo. Cioè la funzione regolatrice dell'architettura, da non confondersi con la tornitura dei linguaggi o degli stili.

La prospettiva assunta dai curatori della mostra alla Triennale di Milano, intitolata Comunità Italia, parte invece proprio dall'assunzione in positivo della "diversità" italiana, secondo un arco cronologico che dal 1945 sconfina sino all'inizio del terzo millennio: «Quegli anni hanno visto fiorire la migliore ingegneria italiana di sempre; svilupparsi capacità costruttive in seguito esportate nel mondo; affermarsi generazioni di architetti di valore il cui numero e la cui varietà di linguaggi non ha avuto paragoni altrove, nello stesso periodo.
Che cosa ha accomunato tutto ciò? Indubbiamente il muoversi dentro una serie di condizioni contingenti, dalla ricostruzione al miracolo economico alle crisi, ma altrettanto indubbiamente l'appartenenza a un territorio straordinario in cui labellezza del paesaggio, la varietà delle città, la storia che permea ogni cosa hanno sempre costituito il principale condizionamento
di ogni opera costruttiva».
Se per Melograni il talento di alcuni non compensa il fallimento dei molti e anzi quasi ne costituisce un alibi, per i curatori Ferlenga e Biraghi la "grande bellezza" d'Italia è anche conseguenza della"grande ricchezza" di posizioni individuali, le cui tracce devono essere considerate «materiale fondamentale per nuovi progetti». Forse per corrispondere a questa generosa diversità, il taglio monografico del racconto tradizionale cede il passo a quello antologico delle micrologie e delle microstorie, che a tratti ricorda il ritratto del paese offerto da MondiItalia nell'ultima Biennale di Venezia. Gli assaggi critici sono infatti molti e divariabile intensità o capacità analitica, nell'ambizione di tracciare le coordinate di una carta identitaría dell'architettura nazionale a partire non più dagli obsoleti rilievi stilistici, ma dalla concretezza di situazioni particolari e determinate: i progressi dell'ingegneria, lo stato dei territori e le forme delle città, le politiche degli eventi e quelle della tutela del moderno, le liason tra architettura e design e quelle tra architettura e media, nell'ansia di comprendere le logiche del cantiere e quelle dei commenti e delle parole. Se il corpo principale dell'esposizione milanese è composto da circa 120 opere, tra disegni, modelli e fotografie, la galleria introduttiva si presenta come un percorso attraverso tante stanze tematiche introdotte da una installazione video e dall'utopia della «città orizzontale di Consagra». Al corpo centrale che cerca dì ricomporre un immaginario paesaggio italiano, segue una "coda" meno tradizionale con video che raccontano possibili "segnali di futuro" nelle varie pratiche che accompagnano le trasformazioni in atto. Se questa miriade di punti di vista confermi o neghi l'esistenza stessa di una "comunità" Italia rimane però un punto interrogativo, riassunto in maniera efficace dal collage di Claudia Gallo, Bizzarria Italia: ispirato dagli storici collage (Metropolis) con cui negli anni '20 Paul Citroen si misurò con l'esplosione della modernità nell'ego dei suoi protagonisti in fondo può considerarsì come il più efficace manifesto di questa Comunità Italia.