Un libro di Carlo Melograni e una mostra alla Triennale di Milano
condividono la necessità pur da punti di vista diversi di ripensare le
vicende del nostro Paese a partire dall'epopea della ricostruzione dopo
il trauma del secondo conflitto mondiale. Più di mezzo secolo è da allora trascorso e la naturale riluttanza dello
storico a ricostruire vicende di cui era stato testimone, può essere
considerata una remora superata.
Ci provò per primo nel 1982 Manfredo Tafuri con un taglio fortemente
autoriale e quasi dieci anni dopo Francesco Dal Co con la regia di
lettura per frammenti, affidati a un gruppo selezionato di studiosi. A maggior ragione oggi la distanza
temporale consente una prospettiva di più lunga durata mentre gli
scenari dell'architettura sono talmente mutati da influenzare la
produzione di nuove interpretazioni. Non a caso, la tesi di Carlo
Melograni che per il suo diretto coinvolgimento nella storia di cui
narra può considerarsi un Erodoto moderno è quella che «nel nostro paese
i conti con l'architettura funzionale vanno rifatti da capo».
Insistendo sulla specificità della nostra condizione nazionale, sul mito
delle tradizioni locali e dell'artigianato costruttivo ci siamo
progressivamente rinchiusi in un bozzolo di autocompiacimento, tenendo
fuori dalla porta i problemi della crescita indiscriminata, dell'assalto al territorio, della mancanza di infrastruttura. In poche
parole alla crudezza della realtà abbiamo preferito l'evasione nella
poesia. «Dovremmo invece dice Melograni tenere spalancate porte verso
l'esterno» perché «l'impegno sociale distingue la vera dalla falsa
modernità; si può dire la modernità dalla modernizzazione».
La tesi è cruda, l'analisi impietosa, rafforzata da una scrittura senza
fronzoli che ha il piglio del discorso a braccio. Molte le vittime
illustri sul campo (incluso il grande Carlo Scarpa), ma la forza del ragionamento sta nella netta evidenza di un punto di partenza che è
anche un ideale, se non un punto di arrivo. Cioè la funzione regolatrice
dell'architettura, da non confondersi con la tornitura dei linguaggi o
degli stili.
La prospettiva assunta dai curatori della mostra alla Triennale di
Milano, intitolata Comunità Italia, parte invece proprio dall'assunzione
in positivo della "diversità" italiana, secondo un arco cronologico che
dal 1945 sconfina sino all'inizio del terzo millennio: «Quegli anni
hanno visto fiorire la migliore ingegneria italiana di sempre;
svilupparsi capacità costruttive in seguito esportate nel mondo;
affermarsi generazioni di architetti di valore il cui numero e la cui
varietà di linguaggi non ha avuto paragoni altrove, nello stesso
periodo.
Che cosa ha accomunato tutto ciò? Indubbiamente il muoversi dentro una
serie di condizioni contingenti, dalla ricostruzione al miracolo
economico alle crisi, ma altrettanto indubbiamente l'appartenenza a un
territorio straordinario in cui labellezza del paesaggio, la varietà
delle città, la storia che permea ogni cosa hanno sempre costituito il
principale condizionamento
di ogni opera costruttiva».
Se per Melograni il talento di alcuni non compensa il fallimento dei
molti e anzi quasi ne costituisce un alibi, per i curatori Ferlenga e
Biraghi la "grande bellezza" d'Italia è anche conseguenza della"grande
ricchezza" di posizioni individuali, le cui tracce devono essere
considerate «materiale fondamentale per nuovi progetti». Forse per
corrispondere a questa generosa diversità, il taglio monografico del
racconto tradizionale cede il passo a quello antologico delle micrologie
e delle microstorie, che a tratti ricorda il ritratto del paese offerto
da MondiItalia nell'ultima Biennale di Venezia. Gli assaggi critici
sono infatti molti e divariabile intensità o capacità analitica,
nell'ambizione di tracciare le coordinate di una carta identitaría
dell'architettura nazionale a partire non più dagli obsoleti rilievi
stilistici, ma dalla concretezza di situazioni particolari e
determinate: i progressi dell'ingegneria, lo stato dei territori e le
forme delle città, le politiche degli eventi e quelle della tutela del moderno, le liason tra
architettura e design e quelle tra architettura e media, nell'ansia di
comprendere le logiche del cantiere e quelle dei commenti e delle
parole. Se il corpo principale dell'esposizione milanese è composto da
circa 120 opere, tra disegni, modelli e fotografie, la galleria
introduttiva si presenta come un percorso attraverso tante stanze
tematiche introdotte da una installazione video e dall'utopia della
«città orizzontale di Consagra». Al corpo centrale che cerca dì
ricomporre un immaginario paesaggio italiano, segue una "coda" meno tradizionale con video che raccontano possibili
"segnali di futuro" nelle varie pratiche che accompagnano le
trasformazioni in atto. Se questa miriade di punti di vista confermi o
neghi l'esistenza stessa di una "comunità" Italia rimane però un punto
interrogativo, riassunto in maniera efficace dal collage di Claudia
Gallo, Bizzarria Italia: ispirato dagli storici collage (Metropolis) con
cui negli anni '20 Paul Citroen si misurò con l'esplosione della
modernità nell'ego dei suoi protagonisti in fondo può considerarsì come
il più efficace manifesto di questa Comunità Italia.