Recensioni / Pessimista? Nemmeno per sogno

Ad un certo punto, diciamo passati i quarant'anni, la nostalgia avvelena e addolcisce, insieme, il presente incerto. Accade per un vecchio film, un programma tivù, un libro che riappare e ci riporta indietro, in un'agrodolce gita premio nel tempo abitato da un noi lontano, spesso con predominanza cromatica del bianco e nero. Così se prendete in mano Vite vere compresa la mia, l'indispensabile baedeker della creatività ironica del Giuseppe Viola, detto Beppe, faccia e fisico da film francese anni Settanta, roba tipo Bertrand Tavernier o Claude Sautet, cadrete immediatamente in un deliquio duraturo popolato di cose, persone, avvenimenti, parole degli anni a cavallo tra il decennio del conflitto e quello che sarebbe stato del riflusso, che lui non vide dispiegarsi perché se ne andò, a quarantatré anni, una domenica sera, fredda e milanese, il 17 ottobre 1982, mentre stava ultimando uno dei suoi non convenzionali servizi per la Domenica Sportiva – un Inter-Napoli 2-2. Ci sono persone che per innata capacità di galleggiare sul brusio del proprio tempo, riescono a polarizzare un sentire che solo a posteriori si presenta come comune, ecco Beppe Viola è stato uno così: capace di sintetizzare senza omettere, di raccontarci il calcio, la vita, Milano, l'Italia e gli ultimi anni in bianco e nero, e farci già scorgere l'edonismo anni Ottanta, il Paese a colori, insieme un po' più vero e un po' più finto. Vite vere era il titolo della rubrica che Viola teneva, invitato da Oreste Del Buono (tutto torna), su «Linus», uno spazio di libertà che l'autore occupava con pezzi molto diversi: racconti autobiografici tout court o di pura invenzione surreale, altri di ambiente sportivo. Un universo di generi che tiene insieme una versione milanese di Boris Vian e un Luciano Bianciardi meno cupo, ironico; un dizionario di nomi e situazioni che spazia da «quelli che» citano solo Ingmar Bergman a «quelli che»invece parlano solo di Ingemar Stenmark. Un punto di vista sulle cose che ha nutrito non solo il lavoro di Viola in Rai – con le punte della volta che, dopo il brutto derby milanese del 27 marzo 1977, decise di mandare in onda le immagini della partita di andata (scelta situazionista poco apprezzata dai dirigenti Rai), o della famosa intervista in trama Gianni Rivera ma anche le tante collaborazioni col cabaret, l'altro Derby, il locale (c'è n'era un terzo di Derby a cui teneva più di tutti: quello di San Siro, inteso come ippodromo), la televisione, il cinema, la canzone, e questi pezzi che ora Quodlibet ripropone (con l'aggiunta di inediti) nella veste grafica dell'edizione Milano Libri del 1981, col faccione di Viola ritratto da Altan. Racconti sgangherati della factory (ma a Milano era clan) comico musicale composta da Jannacci, Cochi & Renato e Viola, modestamente, scriverebbe lui, pezzi di costume sulle vacanze deficienti (parodia di quelle intelligenti proposte da L'Espresso), siparietti milanesi nella sua topografia preferita: intorno a via Lomellina o al Bar Gattullo, esilaranti storie di appuntamenti con signorine che sanno il fatto loro: «Martina è un bel nome dissi. No, corresse, Martina è un bel culo, tanto per fami capire che non faceva la pediatra, né sua mamma era una contessa». E poi i pezzi dell'autoritratto: quelli sul lavoro, con la meravigliosa lettera al direttore generale della Rai, «col primato mondiale di mancata carriera» e «ho quarant'anni, quattro figlie e la sensazione di essere preso per il culo», quelli sulla vita di famiglia, o le due volte che perse l'occasione di fare un po' di soldi come testimonial per la pubblicità, battuto da Amanda Lear e Ilona Staller, modestamente, direbbe sempre Viola: «Pessimista? Nemmeno per sogno! Incazzato sì, beh almeno quello». Una vita vera.

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