Michele De Lucchi è un cantastorie del nostro tempo: la figura austera
lancia timidi sorrisi nascosti dalla barba sempre pettinata, mentre il
suo carisma emerge dal racconto delle sue vicende, storie di vita, di
lavoro, di sogni.
Il fascino di un passato denso – così come il suo presente – è
costellato da esperienze diverse fra loro condensate oggi in una delle
personalità più affascinanti dell’architettura e del design
contemporaneo. Nel suo ultimo libro dal titolo I miei orribili e
meravigliosi clienti (pubblicato da Quodlibet, con una nota di Domitilla
Dardi) De Lucchi guarda indietro solo per immaginare il futuro
salutando e prometterci, nell’ultima pagina, di andare avanti.
Il titolo è di per sé emblematico e racconta bene dell’approccio nei
confronti di quei clienti che non hanno mai varcato la soglia del suo
studio in tutti questi anni di attività, ma sono sempre stati bene
presenti nel suo cuore e nella sua coscienza. Eterogenei, educati (chi
più e chi meno), i personaggi sono tutti trattati con lo stesso candore
che caratterizza il Designer in Generale che strillava sui gradini della
Triennale di Milano il 20 settembre del 1973.
“Nel mondo in cui vivo, il concetto di cliente è controverso e ambiguo
perché si riferisce a qualcosa di meschino e nobile al tempo stesso. La
parola cliente fa pensare a intrallazzi e macchinazioni per accaparrarsi
una merce preziosa e fa venire in mente quella deleteria usanza del
clientelismo per cui, soprattutto nel mondo politico, si favoriscono gli
amici e i conoscenti piuttosto che i meritevoli. Fa anche venire in
mente la prostituzione e il rinunciare alla dignità pur di ottenere il
prezzo del proprio servizio”. Le parole che aprono la pubblicazione
chiariscono l’orientamento disincantato eppure solido, di chi ha saputo
gestire alcuni clienti realmente ingombranti per parecchi anni. Ricordo
uno degli aneddoti di De Lucchi relativi al periodo post-laurea: diceva
che gli sembrava incredibile trovare un lavoro al tempo e ancora più
incredibile trovarne uno che fosse addirittura retribuito – quindi, un
buon cliente.
Diversi decenni sono passati da allora e l’approccio nei confronti della
professione e dell’attività, frenetica e intensa per le molte
commissioni a livello internazionale – dalle più recenti nel cuore di
Milano con il Padiglione Unicredit al ponte in Georgia – non ha cambiato
il nostro autore e, soprattutto, non ne ha mutato l’approccio nei
confronti del cliente, elemento sostanziale per la sua attività – di
clienti, anche di quelli veri, c’è bisogno. Ma questo libro non tratta
di Unicredit, Poste Italiane o Olivetti; si parla di avventori ben più
potenti e influenti, e per questo indispensabili, con cui è necessario
fare i conti. A De Lucchi i giochi di parole piacciono e utilizza la
parola cliente come espediente narrativo attraverso cui raccontare il
suo universo: dallo studio ad Angera, sul Lago Maggiore, il Chioso dove
ama ritirarsi rigorosamente solo (o in compagnia della sua amata
motosega, estensione del suo braccio), luogo in cui può dedicarsi a
faccende che esulano dalla parte commerciale della sua attività (“qui
lavoro libero”, dice) per dirci poi del suo studio nel cuore di Milano,
in via Varese, popolato al contrario da decine di collaboratori. Due
facce e due dimensioni che l’architetto ferrarese, laureato a Firenze,
sa gestire con l’equilibro delicato che lo contraddistingue.
In queste pagine, ragiona di architettura, di design (oltre che di una
personale definizione dello stesso nell’ultima decade), delle esperienze
giovanili di Cavart e Alchimia, mentre cita clienti ideali come farebbe
un menestrello d’altri tempi. “Solitamente durante le conferenze gli
architetti descrivono una lunga lista di progetti realizzati: trovo la
cosa un po’ noiosa e inespressiva, ho voluto pensare a un altro modo di
raccontarsi e fare un po’ di teatro”, sottolinea. L’analisi dei “temi
dell’industria, del mercato, dell’artigianato, della sperimentazione,
dell’avanguardia, della tecnologia, della natura, della cultura e molti
altri di cui mi sono anche innamorato e che ho servito come veri clienti
più importanti di quelli commerciali della vita professionale” sono
necessari per arrivare ad affermare, e al tempo stesso suggerire, alle
giovani generazioni (suggerimento scevro da alcun tono paternalista),
che il vero cliente da soddisfare siamo noi stessi.
Non c’è gratificazione se non si è orgogliosi, entusiasti del proprio
lavoro. Un monito netto e semplice – diversamente dalla sua applicazione
– che implica una rigorosità di spirito, azione e disciplina, ma che
soprattutto tende a considerare le priorità dell’individuo. Chi sono i
nostri clienti? Ognuno ha i propri o almeno quelli che sceglie di avere.
La pubblicazione sembra una lettera aperta alle nuove generazioni – e
qui è evidenziata la diversa situazione in cui questa si trova a
operare: la familiarità con le nuove tecnologie o la facilità di accesso
a strumenti che, al tempo in cui De Lucchi era meno giovane, non
esistevano o perlomeno non erano così accessibili. Qui ci dice della sua
passione più grande (si, più della motosega), cioè il disegno, per lui
afflato irresistibile, irrinunciabile, liberatorio; racconta di quanto
era bello andare in giro con una borsa piena di pennarelli e della
necessaria gomma per cancellare perché l’errore è sempre dietro
l’angolo; e dice perfino di come fotografare i propri oggetti, del
sentimento che si prova a “guardarli da lontano”, come se avessero
raggiunto lì, in posa sul set, una loro autonomia. Poi ci sono le
casette (queste sono in legno), opera del connubio con la motosega e del
suo “fracasso”, la miglior colonna sonora del suo lavoro.
C’è tutta la vita di De Lucchi in questo volume: dai primi passi alla
scoperta della propria personalità e del rapporto con il gemello, le
notti a casa di Ettore (Sottsass) e Barbara (Radice), la nascita di
Memphis, la Produzione Privata nata da un’idea condivisa con la moglie
Sibylle; si tratta di una sorta di viaggio a ritroso guardando bene
dritto avanti a sé, lucido e caoticamente ordinato – come solo lui può
essere. Si tratta in realtà del racconto di una vita appassionata e
dalla generosità rara. I clienti, quelli metaforici, ci sono davvero
ovviamente: dalla Signora Avanguardia alla Signora Industria che è
“tutto il bene e il male che abbiamo”, il Signor Mercato, fino alla
Signora Cultura, quella che lui deve amare di più insieme all’amica
Signora Natura. Ne manca uno: si tratta del cliente forse più difficile,
la Signora Integrità, che invito a far parte di questo testo poiché se
c’è una parola a cui si possa emblematicamente associare l’Architetto
Michele De Lucchi, è proprio integrità.