1. Lungo l’ultimo decennio, nella critica italiana si è delineato sempre
meglio un filone lontano sia dagli intimidatori approcci
pseudoscientifici che dal vago estetismo spesso meccanicamente opposto a
quegli approcci: un filone di vigile detection, fondato su un sobrio
equilibrio tra esame rigoroso degli scartafacci e suggestive indagini
analogiche, in qualche caso alla Garboli o alla Carlo Ginzburg. Un buon
esempio lo offre Angela Borghesi, che del resto a questo equilibrio non è
certo arrivata per caso, data la sua consuetudine con la storia della
critica. Parliamo qui, in particolare, del suo libro più recente, Una
storia invisibile. Morante Ortese Weil, pubblicato da Quodlibet nel
settembre del 2015. Già il titolo indica il progetto di portare a galla
reti più o meno sotterranee di rapporti e influenze. I saggi dedicati a
questo triangolo femminile, spiega la studiosa nella prefazione, hanno
preso forma «inseguendo il guizzo di una coda, quella dell’Iguana di
Anna Maria Ortese. Nascosti nel finale di quel romanzo, un paio di
elementi inattesi rimandano all’opera di Elsa Morante». Intorno a questi
elementi, si sono poi raccolti altri indizi emersi da un esame mirato
della Storia e del Cardillo addolorato, e da una lettera della Ortese a
Dario Bellezza. Risultato: alla Borghesi è saltata agli occhi la
rimarchevole somiglianza tra alcune pagine delle due narratrici (più
precisamente, un debito della Ortese verso la Morante) e il forte
ascendente esercitato su di loro dai testi della quasi coetanea Weil –
ascendente dichiarato da Elsa, e «secondo suo costume» taciuto invece da
Anna Maria.
In effetti, il vero continente sotterraneo da portare a galla è la
cultura della Ortese, data la sua inclinazione «a mitizzare la propria
autobiografia», e la nebbia di «reticenze silenzi oblii» con cui
circonda l’arcipelago delle sue opere per sembrare un fiore senza gambo,
un’artista sonnambula, isolata e naïve, «impermeabile a prestiti e
influssi». Ovviamente non è così; e nel caso specifico, la Borghesi
dimostra come abbia letto con molta attenzione Menzogna e sortilegio,
che filtra nel finale della più volte rimaneggiata Iguana e negli altri
due libri della «trilogia animalista», Il cardillo addolorato e Alonso e
i visionari. «Le vicende di Anna Edoardo e Francesco da un lato, di
Elmina Duprè e Neville dall’altro», commenta la studiosa, «sono storie
di matrimoni con i partner sbagliati: Iguana, Aleardo e Ilario
propongono una variazione del medesimo triangolo». E la simmetria si
coglie perfino in qualche dettaglio compositivo laterale, ma certo non
indifferente: ad esempio, «L’Iguana e Menzogna e sortilegio si congedano
entrambi con una poesia intonata come un’apostrofe: il Canto per il
gatto Alvaro in Morante, l’Invito scritto dai fratelli Guzman per amore
della Iguana in Ortese».
Più in generale, la Borghesi sottolinea i motivi comuni alle due
autrici: «la malattia, declinata come follia, delirio, vaneggiamento,
visionarietà, fantasticheria», e «il doppio e lo specchio, il reale e
l’irreale, l’ambiguità, il travestimento o la metamorfosi». A
un’occhiata più complessiva ancora, queste due isole letterarie di
apparenza semiselvatica si rivelano collegate da alcuni atteggiamenti
ideologici di fondo, da alcuni tic dell’immaginario: lo sguardo
creaturale attento «agli ultimi tra gli ultimi» (i «paria», li chiama la
Morante nella Storia mettendo a frutto le letture e i viaggi indiani);
l’«élan verso una ciclica rinascita»; una variabile miscela di atmosfere
sontuose, fiabesche, e di spoglie liturgie cristologiche; un’epica
parodica, infantilmente eroica e spagnolescamente “idalgosa”; e su
tutto, un onnipresente animalismo.
Quanto alla Weil (che dalla sensualità di questo animalismo è molto
lontana, come nota la Borghesi, e che alle bestie, per lei platonica
metafora della schiavitù, contrappone la purezza del mondo vegetale),
nella Morante il debito è evidente fin da Pro o contro la bomba atomica.
Tra gli anni Sessanta e i Settanta, molte pagine morantiane
s’attorcigliano intorno a uno dei pensieri cardine della filosofa
francese, quello secondo cui «la gioia altro non è che il sentimento
della realtà». Così, nella conferenza del ’65, gli stermini tecnologici
del Novecento vengono interpretati come espressioni della più totale
perdita di contatto col reale; e tre anni dopo, nel Mondo salvato dai
ragazzini, questa rivoluzionaria sui generis grida al lettore che non la
religione ma la «IRREALTA’» è l’«oppio dei popoli» – o meglio degli
Infelici Molti, cioè delle masse piccolo-borghesi assetate di potere e
sfigurate dall’ansia di possesso. Tra i Felici Pochi immuni da
quest’ansia, che derealizza ormai ovunque i corpi, gli oggetti e le
relazioni, si contano invece gli anonimi randagi dell’esistenza – a cui
però la scrittrice, con una significativa mossa romantica, associa i
poeti e gli intellettuali, i Rimbaud e appunto le Weil. E che la Morante
del ’68 sia invasa da un vero e proprio entusiasmo per l’allieva di
Alain si vede forse ancora meglio nei versi in cui definisce in modi
greco-orientali la ciclicità del cosmo e il rapporto “geometrico” tra
Dio e gli uomini. Ma nel brano cruciale della Canzone degli F.P. e degli
I.M. citato dalla Borghesi, a me sembra di avvertire anche l’eco di un
altro ricercatore della grecità perduta, il tedesco Hölderlin: «la casa
di quest’unico Dio sono/i viventi,/e se questi chiudono le loro
finestre, l’abitatore della casa/resta cieco./Noi dobbiamo riaprire le
luci dei nostri occhi/perché lui riveda».
2. Le riflessioni perentorie, le parabole e le grida degli anni
Sessanta, alimentate dalla weiliana «fonte greca», si travestono poi
romanzescamente per incastonarsi nella Storia (1974). La Borghesi
insiste in particolare sul ruolo giocato, nella costruzione di questa
vasta fabbrica, dal saggio che la Weil dedicò all’Iliade, precocemente
ed empaticamente commentato negli anni Cinquanta da quel Nicola
Chiaromonte, amico di Moravia, che proprio all’inizio dei Settanta dava
alle stampe la dura requisitoria contro lo storicismo di Credere e non
credere. Secondo Chiaromonte, L’Iliade o il poema della forza è «una
specie di Bagavad Gita»: definizione penetrante, se si considera quanto
contò per la Weil, oltre a Omero, l’epica indo-tibetana. E qui la
Borghesi ricorda un passo dove la Morante afferma che la sua nozione di
romanzo è molto più ampia di quella comunemente utilizzata dagli storici
della letteratura, dato che per lei anche «l’Iliade e la Bhagavad-Gita
sono dei romanzi». La narratrice non distingue tra antiche saghe e
peripezie medievali, tra Ariosto e Dostoevskij: ai suoi occhi
l’importante è che sia il romanzo sia il mito, sia i poemi fantastici
sia quelli naturalistici costituiscono un Tutto, un organismo concepito
come una visione compiuta del mondo e come un equivalente simbolico del
pensiero. Ecco perché nei suoi libri il rapporto tra trame, immagini e
teorie è così stretto; ed ecco perché ha testardamente deciso di
tradurre un pensiero tanto arduo e poco romanzesco come quello weiliano
in un iper-romanzo, e addirittura di concepire La Storia come «un’Iliade
dei nostri giorni».
Di questa traduzione, la Borghesi ci mette sotto gli occhi con cura le
spie più rilevanti. Che non sono solo tematiche, ma strutturali. Molto
acuta, ad esempio, mi sembra la pagina in cui la studiosa riconduce la
scelta morantiana di dividere le schede annalistiche dalle scene
narrative (divisione, ricorda, presente fin nel titolo La Storia.
Romanzo) a una essenziale nota omerica della Weil: «Tutto ciò che è
assente dalla guerra, tutto ciò che la guerra distrugge o minaccia è
avvolto di poesia nell’Iliade; i fatti di guerra non lo sono mai».
Questa natura ibrida e composita si riflette anche nel tono di voce
della narratrice, volta a volta solenne, gnomico, testimoniale,
luttuoso, cerimonioso, epigrafico. È una voce invadente, quasi un
personaggio che non paga il dazio dell’incarnazione: qui si fa
onnisciente, e là si rannicchia nella mente o nei sensi di una creatura;
qui aleggia a mezz’aria e là s’innalza a picco; ora abbraccia tutto in
uno sguardo compassionevole, ora aspira invece a manifestarsi in uno
«spirito lieve e sorridente». La Borghesi, che associa questo spirito e
la pervasiva ostentazione di grazia all’innamoramento morantiano per
Milarepa, giustifica la pretesa della narratrice di voler essere tutto
parafrasando Il mondo salvato dai ragazzini. La sua, dice, «è una voce
narrante onnisciente, ma anche non onnisciente. È Elsa Morante ipse. È
Elsa-nel-testo. È un cronista. È un cantastorie. È un aedo. È un
testimone. È uno sciamano. È uno psicopompo. È un essere
compassionevole. È forse altro ancora, ma è tutto quanto insieme».
Rispetto questa affettuosa apologia, ma non mi convince. L’ubiquità da
finto «cantastorie», l’eclettismo prospettico e stilistico con cui
l’autrice della Storia prova ad amalgamare in un unico flusso diminutivi
vezzosi, epiteti burocratici, e arcaismi che vorrebbero essere un po’
scherzosi e un po’ seri, si risolvono a mio parere in un’allegria e in
un pathos ugualmente sforzati: più esibisce la sua anarchia, meno la
Morante sembra libera; più ci si mostra nell’atto di addentare la polpa
primitiva delle cose, più appare lontana da una semplicità orale o zen.
Il risultato è spesso una faticosa giustapposizione di corrività
prosastica e lirismo logoro, di ideologia poetizzata e di poetico tirato
improbabilmente al colloquiale. Come le capita altrove con meno
stridori, la Morante oscilla qui tra un ideale astratto e lo sfoggio di
una favolosa lievità che suona però greve, e ricorda la pesanteur di cui
pare si sia una volta accusata chiacchierando con Garboli. Lo stesso
dubbio avanzerei anche a proposito di quello che secondo la Borghesi è
un contegno di quasi omerica “equità” davanti ai carnefici e alle
vittime, tutti finalmente sottoposti all’imperio della forza: a me pare
che questo effetto di livellamento dipenda invece da un tipico estetismo
di marca decadentistica, che nella Storia presenta ogni essere vivente
come un animale sventato e infantile.
Per riassumere, se è vero che nell'opera tarda della Morante si contano
molti spunti dovuti alla Weil, è altrettanto vero che si faticherebbe a
trovare una figura più lontana dalla filosofa francese. Le più spietate
analisi weiliane vertono sull'idea che il male dell’irrealtà venga
esponenzialmente accresciuto dalla tendenza a concentrarsi su se stessi,
sulle fantasticherie del proprio immaginario: e questo è forse il
carattere più originario della mens morantiana. Leggendo la Weil, la
Morante deve aver provato la sensazione che si può provare davanti a un
medico che ci comunica una diagnosi orribile, e al tempo stesso ci
indica un percorso di cura con limpido, eccezionale rigore. Ma non è una
cura a cui lei potesse sottoporsi senza distruggersi. Perché l'insana,
perversa concentrazione sui propri fantasmi interiori coincideva con la
sua stessa identità, era la radice del suo universo poetico. È dai sogni
di rivalsa e dalle ambizioni irrealistiche dell'odiata piccola
borghesia da cui proviene – è dal bisogno d'identificarsi con un
opulento scenario romanzesco che scaturisce la più autentica ispirazione
di Elsa Morante. Non a caso, nei suoi romanzi spiccano donne che
sognano destini principeschi in polverosi interni piccolo-borghesi, e
giovani che trasfigurano meschine situazioni famigliari in miti omerici.
Si direbbe che la patologica confusione tra fiaba e vita chiamata
bovarismo, sia riuscita a produrre in lei un notevolissimo risultato
d'arte. Ma è un'arte, va pur detto, gonfia di squilibri, dovuti appunto
all'eccessivo sforzo di nobilitarne la materia e lo stile. Ed è,
soprattutto, un’arte tutta pervasa dall’irrealtà – l’arte di una
scrittrice consapevole di appartenere almeno per metà agli Infelici
Molti che non si accettano, e che quindi vogliono apparire ciò che non
sono. Già il fatto di costruire una Storia mitizzando le categorie
weiliane è un atto giocoforza antiweiliano. Così, anziché fissare con
impassibile pietà gli esseri umani – e la poesia, allora, sarebbe data
evangelicamente in sovrappiù – la Morante ha bisogno di circonfonderli
di un’equivoca aura poetica: tende a creare degli “angioletti” inermi o
feroci, e a manovrare le loro vicende evocando enfaticamente una
sapienza che ne deforma lo stato reale (per questo, anche se li
idolatra, spesso non li ama abbastanza per vederli come sono). Ma
soprattutto, a stabilire una differenza incolmabile tra l’ethos della
Weil e quello della Morante è il fatto che la narratrice identifica il
bene, la santità e la realtà con l’operare del Poeta. Ne consegue
un’elaborazione ideologica estetizzante e pseudoribellistica, che sta
ambiguamente e corrivamente a metà via tra la propaganda e una
letteratura vestita di abiti religiosi, ma che non sopporta né una vera
scelta politica né una radicale conversione mistica. Anche questo, in
fondo, la Morante lo sapeva benissimo: sapeva, cioè, che il suo
entusiasmo sapienziale era un partito preso, un mito. «Infine, si tratta
della differenza di una consonante: il tuo pregiudizio si chiama M e
il mio T», scrisse a Goffredo Fofi in una bella lettera in cui,
criticando un po’ se stessa per criticare l’amico, osservava che voler
agire nel mondo senza prima comprendere con distacco la situazione è
come mettersi ciechi alla guida di altri ciechi.
3. Date queste caratteristiche, i suoi tentativi di piegare il
rigore terribile del pensiero weiliano alle proprie esigenze letterarie
non sono mai del tutto convincenti; anche perché, a ragione, la Morante
non è mai del tutto convinta della loro legittimità. Sebbene
l’esperienza di lettura dei saggi e dei Quaderni di Simone Weil sia
sinceramente sentita come decisiva, ciò che resta in lei della filosofa
francese è perciò soprattutto un’eco di straziata retorica, commovente
per la radice di sofferenza esistenziale che la nutre, e respingente per
l’estetismo che ne deriva. Ad esempio, parafrasando le Riflessioni
sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, la Morante afferma
che bisogna provare a ristabilire il patto perduto tra lo spirito e il
mondo, e che bisogna farlo a tutti i costi, pur sapendo che è un compito
impossibile, con la stessa fierezza di Socrate che in prigione imparava
a suonare la lira. Ma questo patto è concepito da lei in termini
squisitamente artistici: alla fine, l’eroe è sempre il Poeta. Ed è la
difesa di questa figura romantica, cioè in fondo di se stessa, a rendere
la scrittrice non di rado stonata, banale, demagogica: come quando, per
prevenire le critiche alla sua nuova letteratura-manifesto, avvisa che
vi si discute di questioni epocali così urgenti da rendere ogni
preoccupazione formale fuori luogo, tanto più che in casi del genere la
realtà «parla da sola»; o come quando, davanti alle stroncature della
Storia, arriva a dire di sentirsi «condannata alla solitudine orale,
all’incomprensione, all’ostilità».
Anche e forse soprattutto per il rispetto dovuto al suo lavoro
tormentato, credo si debba evitare di seguire la Morante su questa
strada, se non si vuole rendere la sua situazione davvero irreale: non
siamo davanti a un epico conflitto in cui il Poeta combatte col mondo a
mani nude, ma in una discutibile – anche stilisticamente discutibile –
società letteraria del tardo Novecento, molto italiana, molto romana,
nonché giornalisticamente compromessa.
4. Ed è proprio a partire da una polemica nata in questo contesto
che la Borghesi stabilisce un ponte tra il discorso sulla Morante e
quello sulla Ortese.
Quando, dopo aver taciuto per due anni, nel ’76 l’autrice della Storia
interviene a sconfessarne un’edizione censurata uscita in Spagna, e
definisce il romanzo «prima ancora che un’opera di poesia (…) un atto
d’accusa contro tutti i fascismi del mondo», il suo amico Dario Bellezza
inopinatamente e scompostamente l’attacca, contraddicendo un suo
precedente giudizio positivo. Bellezza le imputa ora «uno stile andante e
giornalistico», e considera le rivendicazioni d’impegno civile come
pretestuose o addirittura dettate da ragioni commerciali. Al suo
intervento seguono reazioni a catena sui giornali, con dichiarazioni
pompose, appelli accorati, e stizze scolastiche che esprimono gli
aspetti più grotteschi della suddetta società letteraria. Rispondendo a
una dura dichiarazione di Natalia Ginzburg, Bellezza s’infogna sempre
più nelle sue stridule accuse ad personas; e arrivando a dire che i suoi
accusatori «mai sono stati sfiorati da tutto ciò che può rendere la
vita degna di essere vissuta, compresa la più alta di tutti: la Poesia
(…) non (…) solo quella scritta, ma quella vissuta», finisce per portare
alla caricatura (ma a una caricatura ahimè già implicita
nell’originale) tutti i materiali di dubbio gusto di cui è fatta la
Weltanschauung panpoeticista della sua ormai ex amica Morante e della
sua recente amica Ortese. La quale Ortese – che ancora segnata dalle
polemiche su Il mare non bagna Napoli si sottrae al dibattito pubblico, e
rifiuta perfino di nominare i contendenti – scrive una lettera privata e
cifrata a Bellezza dove attesta la sua ammirazione per la Morante, e in
subordine il suo rispetto per la Ginzburg. Il tono è insieme ammonitore
e affettuoso, quasi un buffetto al ragazzo troppo teatrale che Renzo
Paris, in una poesia di quegli anni, ritraeva con un suo libro
sottobraccio. Ma quello che interessa, nella lettera, è soprattutto la
descrizione di un sogno infantile: un pezzo letterario incantevole e
molto più convincente, anche per ragioni di misura, di altre analoghe
fantasie che la Ortese ha dilatato in vaghi e pletorici scenari
romanzeschi.
Coerentemente con la sua formazione, si tratta di un sogno
metafisico-novecentista. La piccola Anna Maria è a tavola con la
famiglia, quando la nonna sente uno scricchiolio nella stanza accanto.
Va a vedere, torna, e pronuncia un verdetto tremendo: «C’è il Drago, di
là, e vuole uno di voi». Allora l’intrepida Anna Maria si alza ed entra
nella stanza rossa. Qui si trova davanti l’«armadio del Borbone» (in
quest’uso leggendario e nobilitante del nome storico è un tipico
procedimento poetico ortesiano) con un’anta che trema, scossa da due
manine verdi. Ma proprio mentre fissa ipnotizzata gli arti minuscoli e
mostruosi, dall’altra parte della stanza compare un soldato romano
antico, avvolto in un fascio di luce, sullo sfondo pittorico di una
campagna in tempesta. Questa specie di solenne angelo vendicatore
consegna ad Anna Maria la sua spada, e lei sa già cosa deve farne:
«salii sul Drago, e lo toccai – semplicemente (…) Non fece più un solo
movimento. Oh, quale dolore provai!». Subito dopo il tocco fatale, la
bambina scopre che l’angelo-soldato è scomparso, e che in sala da pranzo
sono svaniti anche la nonna, la mamma e i fratelli per i quali ha
commesso quel sacrilegio: «La bottiglia era rovesciata e vuota [secca]:
la finestra era aperta, e un gran vento imperversava». Il drago, dunque,
era un falso nemico; mentre nemico vero era il soldato. Il fulgore
celava un inganno; e il mostro, viceversa, una principesca mitezza da
fiaba: «Gli occhietti, seppelliti sotto palpebre verdi e gonfie come
ranocchie, erano d’oro, e la loro espressione (…) era di assoluta
pazienza, bontà e gioia. No, io non saprò mai dirti quale tenerezza e
grazia era in quei bruttissimi e sonnolenti occhietti d’oro».
Questo aspetto verde, la Ortese ha temuto poi di vederselo trasmigrare
addosso – e dice di averlo colto davvero, guardandosi allo specchio,
celato appena quel tanto che bastava a difenderla da altre spade. In
effetti, il sogno ha forma di oroscopo: l’equivalente, dice bene la
Borghesi, del famoso «sogno della cattedrale» registrato dalla giovane
Elsa Morante in un suo diario. È un sogno che rivela un destino, che
evoca una radice di diversità e una dolorosa vocazione, insieme al
pericolo che comporta onorarla e al pericolo che comporta soffocarla.
Così lo interpreta compiaciutamente la stessa Ortese, che a Bellezza
scrive di essersi accorta presto della sua natura interiore di drago
(cioè, fuor di metafora, di artista), natura che le consentirebbe
d’intuire le cose in un modo del tutto particolare, profondo e opaco a
un tempo. La sua è infatti una «intelligenza (…) a circuito chiuso»,
come spiega con un’espressione non molto lontana da quelle usate quasi
contemporaneamente dal suo ex amico Luigi Compagnone, che la definiva
«negromantica» e capace di vedere «nel fondo delle cose senza
guardarle». Il drago, «creatura non formale», rappresenta per lei il
contrario del romano, emblema dell’esteriorità: e qui, la sua chiosa
veicola una microteoria sullo sviluppo della coscienza, dall’antichità
alla modernità nordeuropea passando per il cristianesimo, che somiglia
molto a un bignami di filosofia della storia hegeliana o hölderliniana.
Ma quel che importa, nel contesto, è il legame tra l’idea negativa della
romanità e gli anatemi antiromani della Weil; così come richiama la
pensatrice francese quella corsiva «gioia» che allude a un radicamento
certo dell’io nella realtà, nel suo nocciolo autentico nascosto sotto
una scorza bruttissima e mostruosa.
5. Anche in questo caso, però, bisogna subito aggiungere che ben
poco weiliana è l’interiorità esibita dalla Ortese, sprofondata a sua
volta in un limbo di fantasticherie spettrali. Soprattutto, la lettera a
Bellezza mostra che l’autrice dell’Iguana, come quella della Storia e
di Menzogna e sortilegio, piega ogni strumento teorico alla difesa di
una categoria ritenuta letteralmente eccezionale: quella dei Poeti, alla
quale ovviamente s’iscrive. Se rimprovera con tenerezza il giovane
amico di avere offeso Morante e Ginzburg – e qui il suo tono si fa
sintomaticamente, irrimediabilmente bamboleggiante – è perché le due
colleghe appartengono come lei alla «stirpe dei draghi» (e chissà che
anche questa espressione non venga da un ricordo tedesco, dalla canzone
di Mignon del Meister goethiano e dagli antichi draghi del sud italiano
dove fioriscono i limoni).
La precisazione, sia chiaro, nulla toglie all’interesse delle tracce che
la Borghesi ci mette sotto gli occhi: il primo parallelismo tra Ortese e
Weil azzardato a tentoni nel ’53 da Sandro De Feo; la ripetuta
citazione, da parte della Ortese, del componimento di Bernart de
Ventadorn che la Weil considerava il vertice della lirica provenzale; le
colorature gnostiche dell’opera ortesiana, e il loro rapporto con
l’interpretazione chiaromontiana di Artaud; la somiglianza tra il
destino della Weil e quello di Elmina, che nel perturbante e
hoffmanniano Cardillo si spoglia di ogni fasto per comprendere
fisicamente la croce della schiavitù umana. Ma resta il fatto che
l’immagine eretica che sia Ortese sia Morante offrono di sé è pura
retorica estetizzante e corporativa, cioè quanto mai antiweiliana.
Ciò non significa, però, che queste due retoriche siano identiche. È
anzi la stessa Ortese a marcare le differenze in alcune sue osservazioni
molto acute, sebbene di un’acutezza interessata. Testi alla mano, la
Borghesi ci indica come l’autrice dell’Iguana separi il suo destino
“astrale” da quello del Grande Collega Drago, che intuisce perso in
un’affannosa e tragica ricerca di approdi terrestri inesistenti, tutto
teso a un’astratta costruzione di miraggi razionali-e-reali: si veda ad
esempio, in una lettera dell’86 a Pietro Citati, la svagata furbizia con
cui annota che nell’architettura dell’Isola di Arturo le sembra
risuonare «una risata fredda».
Si potrebbe dire che la Ortese si muove in una irrealtà senza confini, e
la Morante invece vi si ribella dibattendosi ma non riesce comunque a
uscirne, perché proprio lo sforzo di volontà la imprigiona. Le sue
letture orientali le insegnano che il volontarismo è il male, in quanto
produttore di false apparenze: eppure non può disfarsene, dato che uno
dei suoi impulsi più irresistibili è quello di forgiarsi un’identità
fittizia attraverso un trucco “a freddo” – o meglio attraverso un trucco
il cui freddo è l’altra faccia del bruciante, fanatico entusiasmo con
cui l’identità fittizia è corteggiata.
Ma l’immagine più vivida della distanza tra le due scrittrici ce la
propone la Borghesi là dove osserva che se la Ortese si specchia in un
drago, generalmente identificato con la mostruosità solo perché
abbruttito dall’oppressione, la Morante si ritrae viceversa come un San
Giorgio guerriero. Nel simbolo dell’animale sembra annidarsi una verità
più fonda delle bellicose grida o gride morantiane; se però si deve
giudicare l’effettiva espressione poetica che le due scrittrici dànno ai
rispettivi immaginari, il bilancio non va a vantaggio della Ortese. Con
le sue fantasticherie astrali, infatti, si possono tessere brevi sipari
di versi o parabole; mentre i romanzi, che esigono un altro passo o
almeno un’altra incisività, se rimangono dentro questa intelligenza «a
circuito chiuso» scivolano presto in un artefatto poetese: ed è un
poetese quasi sempre più debole del morboso, pesante ma anche potente
razionalismo con cui la Morante dirige personaggi e intrecci. I laccati
colori morantiani possono stuccare per eccesso manieristico; ma restano
narrativamente e direi miticamente più utili, in genere, delle tinte
della Ortese, così spesso simile a un pittore che mischia sulla
tavolozza troppi colori, e che non sapendo scegliere lascia infine
colare sulla tela un grigio informe e uniforme dove ogni realtà e ogni
simbolo si perdono.
In ogni caso, al di là delle valutazioni sul posto che spetta nel canone
alle due narratrici, e sulle loro ambigue letture weiliane, ciò che
conta in questa Storia invisibile è il modo intelligente con cui la
Borghesi accosta i documenti e li commenta. Semmai il dubbio più forte,
lo si sarà già capito, riguarda il rapporto che tende a stabilire tra
idee (o temi) e stoffa dei testi. A volte la critica della detection,
con la sua apparente cautela e il suo fastidio per gli estremismi,
rischia di promuoverne uno suo malgrado. Nel gesto automatico col quale
valorizza tutte le tracce che gravitano intorno alla sua indagine,
presuppone infatti un implicito e aprioristico atteggiamento apologetico
verso gli autori in quanto Scrittori, miti appartenenti a un canone
indiscusso; e dimentica perciò come certi grandi sfondi culturali, e
certe relazioni ghiotte per l’archivio, divengano talvolta poca e magari
povera cosa nell’esito estetico. Ingolosita dalle sinopie, dai trucioli
di bottega e dalla filiera sotterranea che porta i più vari materiali
nei laboratori dei Poeti, questa critica dà allora un eccessivo credito
all’oggetto di studio, e un troppo scarso rilievo all’incarnazione
formale. Ma forse in un libro come Una storia invisibile era
inevitabile, dato che si tratta anche e soprattutto di un atto d’amore; e
forse i miei dubbi dipendono dal fatto che il mio amore per le due
italiane, specie per la Ortese, è molto meno saldo e pacifico di quello
di Angela Borghesi.