Recensioni / Quel che ho visto e udito a Roma

L'autrice austriaca visse tra via Giulia e Bocca di Leone Il suo libro è praticamente un inedito «Quel che ho visto e udito a Roma» con pagine di prosa che hanno il piglio giornalistico ma sfoderano un taglio straniato

 

«A Roma ho visto il Tevere che non è bello, ma trascurato nelle banchine da dove spuntano rive a cui non c'è chi mette mano», scriveva lngeborg Bachmann nel 1955. Quel che ho visto e udito a Roma (Quodlibet, 2002) raccoglie gli scritti di una delle maggiori poetesse e scrittrici del secolo, lngeborg Bachmann. Austriaca di Kiagenfurt, autrice dì strepìtosi racconti come quelli de Il trentesimo anno e di poesie altrettanto belle, la Bachmann visse a Roma da metà degli anni Cinquanta fino alla sua scomparsa avvenuta il 17 ottobre del 1973 all'ospedale Sant'Eugenio. Le circostanze della sua morte ‑ un'ustione provocata da un incendio (pare che la scrittrice si sia addormentata nella sua casa di Via Giulia con una sigaretta accesa in mano e che il sonno fosse particolarmente pesante a causa dell'assunzione di psicofarmaci) ‑ non sono mai state chiarite del tutto. Gli indirizzi romani della Bachmann furono tre: Piazza della Quercia, Via Giulia, e Via Bocca di Leone, ma Giorgio Agamben, che era entrato in quest'ultima abitazione assicura che era «un interno viennese, non romano». Lei, che era venuta a Roma per starci un paio di mesi, finì per starci sempre, senza nemmeno capire bene perché («Non so pìù perché vivo qui», diceva), e negli anni Sessanta gli intellettuali legati alla cultura tedesca che passavano da Roma, passavano dalla sua casa. La ragione della sua permanenza a Roma era forse quella che lei stessa indica: (<A Roma ho imparato a darmi tempo». Il libro, che l'autrice stessa definisce «inqualificabile» raccoglie le corrispondenze da Roma per Radio Brema dal '54 al '55 e gli articoli dello stesso periodo per alcuni giornali tedeschi di Ruth Keller, pseudonimo con cui ancora si firmava. Impressiona lo spaccato di un'atroce Italia postbellica tra scandali politici e fatti di cronaca raccontati con estrema precisione. Ma la vera sorpresa del libro è lo stupefacente Quel che ho visto e udito a Roma, il testo che dà il titolo all'intera pubblicazione ‑e che era già uscito qualche anno fa in un catalogo ‑ pressoché introvabile ‑ della mostra con cui il Palazzo delle Esposizioni aveva celebrato la scrittrice. Sono pagine di prosa poetica e scarna, a tratti crudele, che raccontano Roma come non l'aveva mai raccontata nessuno: senza perdere l'occhio concreto e disincantato della giornalista, ma sfoderando anche quello straniato del poeta, la Bachmann descrive la città con intensità rara, condensando tutti i suoi pensieri in pochi paragrafi. Nella Roma udita e vista della Bachmann è tutto acqua (o rugiada, o piscio di gatto) e fuoco (dal fiammifero acceso dentro le catacombe a quello che dell'incendio appiccato a Campo de' Fiori quando si chiude il mercato). «Ho visto a Campo de' Fiori che Giordano Bruno continua a essere bruciato. Ogni sabato, quando smantellano le bancarelle intorno a lui e restano solo le fioraie, quando la puzza di pesce, cloro e frutta marcita va disperdendosi nella piazza, gli uomini raccolgono sotto i suoi occhi i rifiuti che sono rimasti dopo che tutto si è fatto mercato, e danno fuoco al mucchio. Di nuovo si leva il fumo, e le fiamme mulinano nell'aria. Una donna grida, e gli altri gridano con lei. Dato che nella luce forte le fiamme sono incolori, non si vede dove arrivano e dove cercano di colpire. Ma l'uomo sul basamento lo sa e non ritratta». Per la Bachmann, che peraltro parlava perfettamente l'ìtaliano e senza alcun accento, Roma è la città dove «tutto ha un nome» e «perfino le cose vogliono essere chiamate», la città «dove il cielo è trionfante», dove dal Campidoglio «si sente il rumore della città, ingannevolmente lontano, e soave lo scivolare delle automobili». Soave.