Le scienze della vita hanno una storia segnata da tensioni del tutto
peculiari. Ogni volta che si manifesta una tendenza riduzionistica
mirata in qualche modo a togliere alla biologia l’idea di una qualche
sua eccedenza rispetto al dominio delle scienze fisico-chimiche, si fa
subito avanti, all’interno della scienza stessa, una sorta di
resistenza, una specie di contromovimento tutto mirato a salvaguardare
la specificità della vita, il suo essere non del tutto traducibile
dentro la legalità della fisica e della chimica: il suo richiedere,
cioè, una concettualità, un linguaggio e una forma di discorso che non
possono mai essere del tutto tradotti dentro le parole, i concetti e le
pratiche discorsive delle scienze che si occupano del non vivente.
Significativa e emblematica, in questo senso, è la convinzione di Kant
circa il fatto che la vita, per quanto non possa essere compresa a
partire da istanze che trascendono il mondo della natura, non può però
essere oggetto di scienza nel senso proprio del termine. Per Kant,
infatti, nelle scienze della natura c’è tanta scienza a seconda di
quanta matematica esse contengono. Da qui la drammatica conclusione per
cui la vita, non essendo matematizzabile, non può che rimanere un
mistero, un alcunché di mai davvero compreso e comprensibile: è infatti
inutile anche solo sperare, scrive Kant nella Critica del Giudizio, la
nascita di un Newton del filo d’erba, ovvero che si possa dare
esplicazione scientifica attraverso leggi del fatto stesso della vita.
Il problema non coinvolge, però, solo la filosofia. Un biologo ortodosso
come Ernst Mayr si è impegnato a dimostrare come sia non solo possibile
ma necessario essere, relativamente alla biologia, allo stesso tempo
antiriduzionisti e antimetafisici; spiegare cioè la vita a partire dalla
sua peculiarità senza mai per questo trasgredire la legalità delle
scienze della natura di origine fisica e senza al contempo dover far
ricorso a spiegazioni che fuoriescano dall’orizzonte naturalistico in
direzione di qualche entità non naturale.
La questione, in realtà, va ben oltre la biologia e l’epistemologia
delle scienze della vita e riguarda il nostro stesso rapporto con ciò
che chiamiamo vita e in particolare con la vita che noi stessi siamo.
Non è un caso che la questione circa il modo d’essere della vita in
quanto tale e della differenza dunque tra la vita animale e la vita
umana giochi un ruolo decisivo nel costituirsi stesso dell’antropologia
filosofica da Kant, fino a Scheler, a Plessner, a Gehlen giungendo, per
fare un esempio dei giorni nostri, fino a Peter Sloterdjik.
Lo stesso Heidegger sostenne in vari suoi testi che la vita è quanto di
più difficile e arduo ci sia da comprendere: non solo più del nostro
stesso esistere (tema, questo, a cui dedica, come noto, la parte
pubblicata di Essere e tempo), ma anche del divino stesso. Pensare la
vita in quanto tale, infatti – sia essa quella di un batterio, di una
farfalla o del nostro vicino di casa – significa pensare, a un tempo,
qualcosa che ci riguarda direttamente, qualcosa che noi stessi siamo, e,
insieme, qualcosa che è altro da noi, una modalità dell’essere nella
quale non ci possiamo immediatamente identificare: una vita, o, per
meglio dire, un’infinità di vite, nelle quali non ci è dato di entrare.
Una difficoltà, questa, che Heidegger ha avvertito anche se di essa non
sembra affatto essersi liberato, come testimonia uno dei corsi più
straordinari fra quelli che sono stati pubblicati dopo la sua morte, e
cioè il corso del semestre invernale 1929–30 intitolato I concetti
fondamentali della metafisica. Qui Heidegger presenta le tre famose tesi
discutendo le quali intende affrontare la questione del vivente: 1. la
pietra è priva di mondo; 2. l’animale è povero di mondo; 3. l’uomo è
formatore di mondo.
Se da una parte la differenza tra il modo d’essere della pietra e quello
dell’uomo è segnata da una cesura che consente l’individuazione chiara
ed esplicita di modi d’essere radicalmente eterogenei l’uno rispetto
all’altro, la differenza tra uomo e animale è invece segnata da una
straordinaria ambiguità, in un percorso che non può non apparire, se
appena ci si sofferma sul concetto stesso di povertà, come aporetico.
Le analisi che Heidegger propone sul modo d’essere dell’animale, trovano
per molti versi il loro fondamento scientifico nel lavoro di uno
straordinario biologo attivo fra la fine dell’Ottocento e i primi anni
del Novecento, Jacob von Uexküll, del quale è stata ora tradotta in
italiano l’opera da molti considerata come il suo capolavoro, Biologia
teoretica (a cura e con introduzione di Luca Guidetti, pp. LXII-286,
Quodlibet, 2015, euro 32,00), uscita in prima edizione nel 1920 e in
seconda edizione nel 1928, quindi subito a ridosso di Essere e tempo e
subito prima del corso sui concetti della metafisica.
Ma Uexküll non si sarebbe affatto riconosciuto nel discorso di
Heidegger, che nel tracciare in modo netto la discontinuità con
l’animale attribuisce infatti all’uomo un mondo caratterizzato
dall’apertura del senso, mentre l’animale sarebbe chiuso entro un
cerchio ambientale determinato in termini puramente istintuali. Per
l’animale, cioè, secondo Heidegger non esistono oggetti, cose, altri
viventi con cui entrare in relazione: il mondo dell’animale (ma sarebbe
meglio dire il suo non-mondo) è fatto solo di ciò che è in grado di
disinibire il suo istinto.
Per Uexküll, invece, tanto l’animale quanto l’uomo – sta qui la
differenza radicale con Heidegger – sono soggetti, sono cioè strutture
in grado di mettersi in relazione con la realtà in modo costruttivo:
modi d’essere certo profondamente diversi, ma per i quali il mondo è
sempre connesso all’ambiente specie-specifico dentro il quale agiscono.
La sfida della biologia è proprio questa, secondo Uexküll: indagare le
relazioni dei soggetti non umani rispetto al mondo, il modo in cui essi
costituiscono la propria oggettualità, le strutture attraverso cui
organizzano la realtà.
Non si tratta, secondo Uexküll, né di pensare l’uomo a partire
dall’animale, né l’animale a partire dall’uomo, ma di riconoscere,
questo sì, che tutti i viventi sono modi d’essere specifici che si
distinguono non perché gli uni subiscono la realtà e gli altri invece la
formano, ma per il diverso modo in cui tutti organizzano, a partire da
se stessi, e dunque come soggetti, il loro mondo-ambiente. Non esiste
per Uexküll una realtà assoluta, così come non esiste una soggettività
assoluta o un’oggettività assoluta: «Ogni realtà è apparenza soggettiva –
scrive nell’Introduzione al suo saggio – questo deve costituire la
grande e fondamentale conoscenza anche della biologia». Dunque, la sua è
una radicalizzazione in senso naturalistico del trascendentalismo
kantiano: se merito di Kant è stato infatti l’aver mostrato in che senso
gli oggetti siano costituiti a partire dalle forme impresse dal
soggetto, compito della biologia, secondo Uexküll, è mostrare i diversi
modi in cui i diversi soggetti, e dunque non solo l’uomo, ma tutti i
viventi, a partire dalle loro caratteristiche peculiari e dall’ambiente
che è proprio a ciascuna specie, costruiscono essi stessi l’oggettualità
di fronte alla quale sono posti come soggetti. È qui, probabilmente, in
questa radicale deantropomorfizzazione della nozione di soggetto, e
dunque nella sottrazione all’umano del privilegio della soggettività,
che la biologia di Uexküll costituisce ancora una sfida per il pensiero
filosofico.