Recensioni / Elsa Morante e la Storia incompresa

l libro di Angela Borghesi Una storia invisibile. Morante, Ortese, Weil (Quodlibet, pagine 182, euro 18) non è facile da recensire. È e non è, infatti, un libro di critica letteraria, pur essendo indispensabile a chiunque voglia capire letterariamente due delle maggiori e più singolari narratrici italiane del Novecento. È un libro di storia della cultura che mostra come Simone Weil, la cui eccezionale statura filosofica non è stata ancora adeguatamente valutata, abbia influenzato quanto ha scritto Elsa Morante dal 1960 in poi, e come sia Morante che Weil abbiano più sotterraneamente, ma quasi ossessivamente magnetizzato l'attenzione di Anna Maria Ortese. Nella sua seconda metà il libro contiene un paio di capitoli dedicati alle torbide e cieche rabbie del poeta Dario Bellezza contro la Morante: pagine che certo non diminuiscono il valore e l'interesse dello studio di Angela Borghesi, ma non aggiungono nulla e scivolano in una cronaca culturalmente irrilevante. La Borghesi studia bene e documenta trame nascoste che rivelano il rapporto fra idee, illuminazioni morali e miti narrativi. In qualche caso, però, la sua "studiosità" la trascina in zone che sarebbe stato meglio trascurare che studiare. Dico questo soprattutto perché il contrasto e lo squilibrio si notano: in un libro dedicato all'influenza di Simone Weil, commentare abbondantemente i pettegolezzi di un mezzo poeta come Bellezza non ha senso. Ciò che invece ha molto senso ed era necessario chiarire per comprendere alcune fondamentali ragioni per cui un romanzo come La Storia ha suscitato reazioni di fastidio sia violente che ottuse, è il fatto che la cultura italiana non era preparata a vedere le implicazioni morali e di pensiero di un tale poema narrativo. È stata sottovalutata o ignorata l'ispirazione epica e religiosa del libro. La cosa certa è che nessuno dei critici della Storia (fossero marxisti più o meno competenti, ma sempre dogmatici o infamati, o fossero neoavanguardisti "di scuola") mostrò di sapere niente di Simone Weil. Nessuno, inoltre, era in grado di percepire la presenza in quel romanzo del pensiero orientale che aveva permesso alla Morante di esprimere una così drastica condanna della Storia come macchina distruttiva fondata su un'idolatria propriamente
demoniaca del potere e della forza.
La sola eccezione a questa ignoranza e inconsapevolezza culturale era, o meglio poteva essere, Franco Fortini, marxista eterodosso e moralista cristiano ispirato da Manzoni e da Kierkegaard, nonché traduttore negli anni Cinquanta, per le edizioni di Comunità, di fondamentali testi di Simone Weil come La condizione operaia, L'ombra e la grazia e La prima radice. Ma Fortini purtroppo tacque, non scrisse una riga, pur avendo manifestato alla Morante l'intenzione di difendere La Storia dai suoi denigratori. In realtà Fortini, traduttore della Weil a metà anni Settanta, quando sentirsi marxisti rivoluzionari sembrò la regola, doveva trovare imbarazzante che la Weil avesse formulato già nel 1934 una delle più lucide e radicali critiche filosofiche al marxismo, all'idea di rivoluzione e a quella di progresso.
Nel lungo capitolo iniziale intitolato "Da Omero a Milarepa. Paragrafi sulla Storia di Elsa Morante e Simone Weil", capitolo che occupa un terzo dell'intero libro, Angela Borghesi fa nel modo migliore la cosa giusta, che finora non era mai stata fatta: testi alla mano, guida il lettore nei labirinti del pensiero weiliano e indo-tibetano che aveva ispirato e reso a molti inafferrabile il maggiore romanzo italiano della seconda metà del Novecento. Un pensiero peraltro già formulato in forma esplosiva, pamphlettistica e liricamente dionisiaca nei poemi del Mondo salvato dai ragazzini.
Con accorta cautela, ma senza pregiudizi ideologici di nessun genere, Calvino in una lettera «sinceramente ammirata, coinvolta e al contempo distanziante» (Borghesi) capì il valore del libro in quanto «epos collettivo» (Calvino) della seconda guerra mondiale. Con illuminante competenza tecnica parlò di «completezza enciclopedica», come è sempre caratteristico di ogni epos. La Borghesi osserva, inoltre, che proprio in questo senso (cosa che sfuggì a tutti) La Storia era, benché in una direzione imprevedibile, «un romanzo innovativo, perfino sperimentale» e «rivoluzionario». Senza aver letto Simone Weil, che Morante aveva letto sentendosene trasformata, non era possibile valutare gli esiti antiumani, alienanti, di molte filosofie politiche novecentesche, né i danni dovuti al culto idolatrico della Storia, che in forme opposte e analoghe, era presente nello stalinismo e nel nazismo. Oltre che sulle letture induiste e buddhiste, la Borghesi insiste sull'interpretazione weiliana dell'Iliade, epica in cui l'antica Grecia si mostra perfino, in senso lato, "precristiana" nella sua visione equanime dei nemici in guerra, entrambi alla fine travolti dalla distruzione e dalla sventura.
Nel 1934 la Weil aveva scritto: «Il primo dovere che il presente impone è di avere sufficiente coraggio intellettuale per domandarci se il termine rivoluzione è altro che una parola, se non è semplicemente una delle numerose menzogne fatte nascere dal regime capitalistico». E nel 1940, andando oltre, scriverà che il «genio epico» fa capire che «nulla è al riparo dalla sorte», che non si deve «ammirare la forza, né odiare i nemici, né disprezzare gli sventurati». Se un'ideologia c'era nella Storia della Morante, i suoi critici avrebbero dovuto fare almeno lo sforzo di rintracciarla e di leggerla nei testi giusti.