Recensioni / Beppe Viola nella Milano di Serie B

L'editore Quodlibet ripubblica i racconti del giornalista sportivo, usciti su «Linus» dal '77 all'82. Tra cumènda e onesti ladruncoli fa un ritratto colto, popolare e poetico della città, degno del suo amico Jannacci.
«Penso che mio padre abbia fatto bene a ballarsi i soldi sui cavalli perché se ne avesse lasciati in giro un po' per casa li avrei fatti fuori io, magari al bigliardo, dove, tra l'altro, si respira anche poco per colpa del fumo». Beppe Viola era davvero uno così: dissipato per questioni di genetica, e non per posa. Aggredito da trigliceridi e colesterolo, i cui valori erano veri e propri bollettini di guerra: «L'ultima volta gli esami clinici mi hanno riferito che ho più salame io in vena che Peck in vetrina». Lirico e arruffato come un gattaccio appena sbucato da un vicolo cieco, quando sfornava incipit (da brividi) come quello di «Offerta speciale»: «Ubriachi di miseria e di bianchini, costeggiamo il Naviglio in una notte senza fine». La sua genialità scanzonata, che la Rai – dove lavorò come giornalista sportivo fino alla morte prematura (17 ottobre 1982, a 42 anni) – faticava ad arginare, era tracimata in molti campi: cinema, canzoni, racconti. Aveva un pregio: raccontava senza il piglio respingente dell'erudito, ma con la scioltezza e quasi l'inconsapevolezza del narratore da tavolata che, davanti a un'ecatombe di cicche e bicchieri, guarda partire le sue storie per il loro viaggio in pubblico. Colto era colto, nonostante le diserzioni scolastiche («avrebbero dovuto scrivere disperso, mica respinto»), e però le sue biblioteche di riferimento restavano i marciapiedi, i biliardi, la notte. Come il suo amico-fratello Jannacci, raccontava tipi strampalati e romantici, sputati fuori da una Milano non ancora da bere, e se sì, nelle bottiglierie di terz'ordine, non certo nei winebar coi vini barricati di adesso. Gente che parlava il lessico spurio e la sintassi asimmetrica e spericolata della «ligéra», la inala «leggera»: complici fidati che non aprivano bocca «nemmeno dal dentista», allibratori clandestini, avventori irascibili e a corto di inglese, buoni a nulla ma capaci di tutto. E poi la Malpensa, che «balla senza appoggiare i piedi per terra, sembra che voli». E il «Le Mans», ladro d'auto che non si vergogna del furto al miglior amico; perché, «ohè, Beppe, ol mesté l'è el mesté. Sul lavoro non si guarda in faccia a nessuno». C'è tutto, questo sottobosco, in «Vite vere», la raccolta di racconti (usciti su Linus dal 1977 al 1982) pubblicata nel 1981 e ora riproposta, con qualche appendice, da Quodlibet (278 pagine, 17 euro). Un piacevole voltarsi indietro per i «Senzaviola» (copyright Gianni Mura): e davvero è come ripiombare in una Milano che non c'è più, avvolta dalla nebbia e dallo sferragliare dei tram, anche se relegare le sue pagine ad affresco puramente nostalgico sarebbe riduttivo. Perché Beppe, nella città dei «cumènda» e del benessere diffuso, di tante addizioni conteggiava soprattutto quel che andava perduto, a cominciare dai sogni per un Paese diverso. Al bar-pasticceria Gattullo, dove pascolava quella post-scapigliatura che avrebbe lasciato il segno nella comicità anni '70 (Cochi e Renato, Felice Andreasi, Jannacci), Viola digeriva panini e delusioni, filtrate appena dal suo cinico disincanto. In «Costa smeralda», un reportage sociologico più che un racconto, registra la puerile competizione tra facoltosi con schizzi efficaci, come quello del proprietario di yacht scocciato perché «ha imbarcato una moglie pretenziosa e arrogante, offesa dalla vicina che porta mezzo chilo di oro più di lei». E, davanti alle maldestre infatuazioni intellettualoidi del jetset da diporto, scodella ironici rimpianti: «Requiem per il ricco che sta scomparendo mischiandosi col conformista d'avanguardia, nostalgia del commenda d'antan il quale si limitava a temere il comunista trinariciuto o il rapinatore di Rolex». Ma è sui mezzi pubblici che la sua poesia stradale dava il meglio di sé, intercettando situazioni grottesche e un po' struggenti. Come la prima volta che a 28 anni Ottorino Vincenzi prese il tram e «si sentì vicino, molto vicino a questa gente in piedi, stanca come lui, sudata come lui, vecchia di centomila anni come lui. Solo che sentì di voler bene anche al tram e siccome era più forte di lui volle dirlo, sì insomma, farlo capire agli altri come era emozionato. Così alla frase: "Signore, ha visto che meraviglia quando piove in tram sembra l'arcobaleno anche se si capisce che è il neon..." si beccò un "vaffan..." appunto lungo come un tram. Ottorino Vincenzi era un oriundo pugliese e con una chiave inglese in mano faceva scappare un paese intero, ma questa roba qui non se l'aspettava, gli arrivò come una martellata in mezzo agli occhi. Così chiese scusa e scese. Ma piano».

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