Recensioni / Triangolo luminoso del '900

Negli anni '60 e '70 Elsa Morante tende a sostituire alla polarità di bene e male quella di "realtà" e "irrealtà". Nel saggio Pro e contro la bomba atomica (1965) scrive perentoriamente che contro la Bomba «non c'è che la realtà», mentre nel Mondo salvato dai ragazzini (1968) leggiamo che gli I.M. non vedono la felicità poiché hanno nell'occhio «la cispa dei troppi fumi di irrealtà». Da dove le viene l'uso di questi termini (largamente condiviso anche da Pasolini)? Angela Borghesi ridisegna meticolosamente la intricata genealogia di tale "dialettica" con uno spirito da detective epistemologico, che accumula indizi, prove e riscontri testuali. Una storia invisibile. Morante Ortese Weil (Quodlibet), non è propriamente un libro di critica letteraria, anche se l'autrice vi esercita il suo acume filologico e ci offre alcune interpretazioni notevoli (ad esempio nella Storia, romanzo "sperimentale", il baby talk che sembra indulgere al patetico – non è che mimesi del greco omerico, che Morante percepiva come "infantile"). Si tratta piuttosto della ricostruzione di un capitolo cruciale della storia delle idee nel nostro paese. Elsa Morante e Anna Maria Ortese – scrittrici dalla comune sensibilità e diverse per temperamento e stile – rappresentano i due vertici di un triangolo di cui il terzo luminoso vertice, semisommerso, è Simone Weil, che in tutta la sua opera usa frequentemente le categorie di reale e irreale, declinandole in senso etico, ontologico, etc. : «la gioia è il sentimento del reale» (Quaderni, II). Aggiungo che Simone Weil – «pensatrice radicale, estrema, ispida» (Borghesi) – anche oggi influenza in modo sotterraneo l'immaginario degli scrittori (ad es. La Ferocia di Lagioia), benché in lei permanga una alterità difficilmente assimilabile. Non direi però, come osservò Calasso, che il problema è non ridurla a una «devota delle buone cause»: certo, non è mai edificante, e si muove sempre sul filo del paradosso, ma per lei il bene – ciò che al dunque motiva le «buone cause» – è assai più misterioso e perfino avvincente del male.... Attraverso il suo pensiero Morante attinge alle due grandi fonti – Bhagavadgita e tragedia greca, Omero e Milarepa – che rilegge in modi personalissimi e intreccia con i suoi romanzi. Ma l'ascendenza è esplicita, trasparente, rivelata anche da lettere e diari. Diverso e più sottotraccia è il discorso per Ortese, che non cita mai Simone Weil. Prima Angela Borghesi si sofferma sugli evidenti «palinsesti morantiani» nella sua opera ( però con una terminologia rovesciata), e poi allinea almeno tre "indizi" a dimostrazione del suo teorema, allegando la esperienza di Ortese alla Olivetti (le cui edizioni Comunità avevano pubblicato Simone Weil) e la sua ammirazione per Chiaromonte, che in Italia ha fatto conoscere il pensiero della pensatrice francese.

   Accennavo a un uso rovesciato della terminologia, che peraltro segue a un ribaltamento allegorico. Il drago è infatti per Morante simbolo del potere (che derealizza e aliena il mondo), contro cui deve mobilitarsi san Giorgio, ovvero lo Scrittore; mentre per Ortese il drago è figura degli animali, degli esseri inermi e offesi (iguana, cardillo, il puma: la trilogia romanzesca delle bestie-angelo), di ciò che è mite e piccolo, del "diverso" (dello Scrittore che non tradisca la sua "natura verde"), minacciato dall'Arcangelo Michele, e cioè dall'uomo stesso della modernità, che si crede dominatore dell'universo (nella conversazione «Piccolo drago» e in una lettera a Dario Bellezza). Ora, tralasciando la questione di un'enfasi eccessiva da parte di entrambe – sulla figura salvifica dello Scrittore (privilegiata in modo indebito su altre figure umane), Ora, tralasciando la questione di un'enfasi eccessiva – da parte di entrambe – sulla figura salvifica dello Scrittore (privilegiata in modo indebito su altre figure umane), occorre notare che, singolarmente, ciò che Morante chiama «realtà» è per Ortese la «irrealtà», e viceversa. Nel senso che indica una fondamentale, originaria relazione: la relazione – invisibile a occhio nudo – tra noi e il tutto, tra noi e un tempo cosmico, tra noi e gli animali (i figli del cielo e della terra, della notte e dell'alba...), tra noi e la Vita, fra tutte le creature (dunque coincide con l'eterno e la bellezza, con la gioia e il dolore assoluto, con la dimensione del gratuito e della compassione, della grazia e dell'inutile). Mentre, all'opposto, la «irrealtà» di Morante si identifica con la «realtà» di Ortese, e cioè con la negazione di tale relazione, con ogni pretesa di possesso e controllo, con l'illusione che le cose siano manipolabili, con l'ovvietà opprimente del dato, con la logica naturalistica e mercantile, con il denaro (e il "freddo" che provoca, come dice Ortese in un'intervista del 1996). Angela Borghesi ci aiuta a capire come nelle pagine di Morante e Ortese – ispirate più o meno segretamente dall'astro scintillante di Simone Weil – si esprima un pensiero composito, forte, impastato in modo viscerale della loro biografia, aperto al tragico e al comico, che si nutre creativamente di tradizioni diverse (filosofia orientale – buddhismo e induismo – , cristianesimo primitivo e francescano, tradizione anarchica non-violenta). Nell'arco di un paio di decenni le due scrittrici riflettono – in una forma narrativa sfiorata dal saggio – sul ruolo dell'essere umano nell'universo, sulla fragilità della creatura, sulla cultura della forza ovunque prevalente, sul senso della nostra stessa civiltà; e lo fanno con una tensione personale e con una radicalità di sguardo che si faticherebbe a trovare negli scritti coevi di filosofi, ideologie leader politici.