Recensioni / «Che cos'è la giustizia?» Un ideale irrazionale. Ma l'attacco è contestabile

In un denso volumetto dal titolo Che cos'è la giustizia? Quodlibet pubblica, a cura di Paolo Di Lucia e Lorenzo Passerini (pp. 240, €18,00) tre inediti di Hans Kelsen di grande interesse: due lezioni sulla teoria pura del diritto, tenute a Berkeley nel 1949, una conferenza su Politica, etica, diritto e religione del 1962 e la farewell lecture (lezione di congedo) sulla giustizia tenuta sempre a Berkeley nel 1952, quando il giurista praghese, che si era rifugiato negli Stati Uniti nel 1940, lasciò settantenne il suo insegnamento universitario. Nei tre testi si ritrovano, nella forma di un'esposizione piana e dialogica, alcuni dei temi principali della teoria kelseniana: la concezione formalista e positivista del diritto e la critica di quelle tesi giusnaturalistiche, da Kelsen avversate in sommo grado, che vorrebbero stabilire una connessione tra il diritto e la prospettiva della giustizia che invece, secondo colui che fu il massimo giurista del Novecento, dalla dottrina pura del diritto deve restare completamente fuori. Parte integrante della riflessione di Kelsen è perciò una critica assolutamente intransigente dell'idea di giustizia; proprio quella idea che, a partire dagli anni settanta, il filosofo americano John Rawls, con la sua fortunatissima Teoria della giustizia, riportò al centro del dibattito teorico-politico. Per Kelsen, invece, la giustizia è «un ideale irrazionale». E non deve stupire, quindi, che proprio alla critica di questo concetto (caratteristico della filosofia occidentale a partire da Platone, o meglio addirittura da Anassimandro) Kelsen abbia dedicato la sua ultima lezione e altri importanti saggi (da ricordare soprattutto quello del 1960 sul Problema della giustizia, dove i temi della lezione del 1952 sono svolti in modo più ampio). I punti forti dell'attacco kelseniano all'idea di giustizia (e alle pretese di coloro che vorrebbero che il diritto vi facesse in qualche modo riferimento) sono fondamentalmente due. Secondo il primo, la giustizia non si lascia definire in modo univoco; mentre il secondo dice che, come ogni altro valore passibile di essere fatto proprio dagli uomini o dagli aggregati sociali, la giustizia può essere certamente oggetto di una scelta, magari anche appassionata, ma non di una argomentazione o dimostrazione razionale. La pluralità inconciliabile e la vanità dei concetti di giustizia, sostiene Kelsen, è sotto gli occhi di tutti. Alcune definizioni di essa sono palesemente tautologiche, come quella classica secondo la quale la giustizia consiste nel «dare a ciascuno il suo»: un'affermazione vuota, perché presuppone che si sappia in che cosa consista il «suo» che deve essere reso a ogni individuo. Ci sono poi definizioni molto più interessanti, come ad esempio quella dell'utilitarismo secondo il quale la giustizia consiste nell'adoperarsi per la maggiore felicità possibile del maggior numero di persone. Ma - obietta Kelsen - cosa vuol dire felicità? Le leggi possono solo mirare alla felicità pubblica, cioè in pratica ad assicurare a tutti gli individui un certo numero di beni. Ma quali sono i beni che hanno valore? Quali i bisogni che meritano di essere soddisfatti? Con quale gerarchia? Per stabilirlo bisogna risalire a opzioni valoriali fondamentali. Ma queste sono necessariamente diverse e in conflitto: i socialisti, per esempio, pensano che si debba garantire a ciascuno la sicurezza economica; i liberali privilegiano le libertà individuali. E tra questi valori ultimi - secondo Kelsen - non c'è modo di decidere con argomenti razionali. La ragione, weberianamente, può aiutarci a scegliere i mezzi appropriati per conseguire un certo fine, ma non ci dice niente circa quali siano i fini che meritano di essere perseguiti. Nell'orizzonte del relativismo dei valori, la ricerca di un'idea di giustizia alla quale ispirare gli ordinamenti sociali e giuridici si rivela perciò priva di senso. Nonostante il suo formidabile rigore logico, però, l'argomentazione di Kelsen non è affatto inattaccabile come sembra. Anzi, può essere contestata in entrambi i suoi aspetti. La eterogeneità delle concezioni della giustizia, sulla quale insiste molto, riguarda gli aspetti contenutistici del concetto, che in effetti sono molto variabili. Ma ciò non vuol dire che le diverse concezioni della giustizia non abbiano un certo nucleo comune, che si potrebbe individuare nell'idea di trattare gli individui in modo imparziale, senza discriminazioni ingiustificate. Per esempio: utilitaristi e kantiani la pensano in modo diversissimo, ma questo punto lo condividono; così come lo condivide la massima «tratta gli altri come vorresti essere trattato tu», che peraltro si ritrova in molte culture differenti. Quanto al relativismo dei valori, anch'esso porta con sé un bel grappolo di problemi irrisolti. La tesi di Kelsen è che il relativismo non è immorale o antimorale perché da esso consegue il valore della tolleranza, costitutivo per la scienza (che per progredire esige la discussione aperta di tutte le opinioni) e che fa tutt'uno con la pratica politica della democrazia, dove si richiede il libero confronto delle idee e non si ammette intolleranza e dispotismo. Ma il ragionamento non funziona perché, se la premessa è il relativismo, allora si può scegliere tanto la tolleranza quanto il suo contrario, e non c'è motivo di preferire la prima. In realtà, il percorso del ragionamento di Kelsen andrebbe, su questo punto, rovesciato: nel momento in cui si fa ricerca scientifica o si esprime un punto di vista teorico (o si tiene una lezione sulla giustizia come fa Kelsen) si è già da sempre accettato il valore della tolleranza e del confronto critico delle idee. Ma ciò vuol dire che il relativismo dei valori, che poteva sembrare insuperabile, ce lo siamo già lasciato alle spalle, lo abbiamo già escluso dando vita a pratiche che implicano valori. Ne consegue che possiamo serenamente ricominciare a discutere di giustizia, e magari anche di giustizia sociale, senza cadere sotto l'interdetto di Kelsen.