Negli anni trenta del Novecento un noto filosofo analizzando l'elemento più comune che circonda l'esistenza dell'uomo, le cose, s'interrogava sulle condizioni che fanno sì che una cosa sia tale. L'esser-cosa della cosa era al centro di uno sforzo speculativo che trova all'inizio del nuovo millennio una risposta da parte di uno storico del diritto romano che, con gli strumenti propri alla sua disciplina, è assolutamente adeguato a raccogliere quella sfida. Chiariamo subito: tra Martin Heidegger e Yan Thomas la distanza non potrebbe essere più siderale sotto ogni punto di vista, ma è difficile resistere alla tentazione d'immaginare una contesa ideale in cui le ragioni dell'ontologia filosofica sono messe a dura prova dalle armi della tecnica giuridica. Per questo e per tanti altri motivi chi volesse sapere come stavano realmente le cose a Roma non può che salutare con soddisfazione l'iniziativa della Quodlibet di avviare un'edizione sistematica degli scritti di Yan Thomas, di cui Il valore delle cose rappresenta un'entrée magistrale. Sapientemente tradotto e post-fato da Michele Spanò, il libro si giova anche di un'introduzione di Giorgio Agamben che del prematuramente scomparso giurista francese fu amico nonché debitore di diverse intuizioni. Apparso originariamente in un numero delle "Annales" dedicato a histoire et droit e di cui lo stesso Thomas è stato il curatore, lo studio è un concentrato delle qualità che fanno del suo autore un pensatore inclassificabile: sistematico depistaggio dei luoghi comuni della temente non sono reputate necessarie a storia del diritto, impiego de gli artifici giuridici non solo a uso dei giuristi ma soprattutto al servizio di problemi immediatamente riconoscibili dalle altre scienze sociali, rigoroso approccio procedurale e non sostanzialistico, preferenza accordata all'astrazione per via casistica e non teorica. Un materiale combustibile offerto alla scintilla di una riflessione spinta ai limiti della radicalità euristica e mai ideologica. E di questa radicalità penetrante Il valore delle cose porta in dote diversi frutti aggrappati a un tronco che indica la verità di fondo: il diritto romano attribuisce un ruolo decisivo alle cose, mentre le persone risultano una preoccupazione secondaria, in ogni caso derivata dalla prima. Alla luce di questa constatazione fondata su un minuzioso confronto con le fonti, si ricava la cifra materialistica di un'analisi che però è apertamente ostile a relegare le cose alla dimensione naturale, semplicemente perché questa natura non esiste se non in termini di costruzione istituzionale. Rispetto a questo ordine delle cose e dei luoghi che Thomas indaga miscelando materialismo e lezione strutturale, le persone appaiono dislocazioni riflesse, effetti secondari di un modus pensandi che attribuisce priorità immediata al non umano. Di qui un importante mutamento di prospettiva: non più una metafisica del soggetto celebrata dall'individuo romano sovrano del mondo, bensì l'invito a trovare du cóté des choses l'elemento della permanenza e della durata normativamente costruita e, di conseguenza, a tralasciare le spiegazioni dell'antropologia culturale in termini d'immaginario e di credenze. Non che queste componenti siano assenti nella società, semplicemente non sono reputate necessarie a chiarire il senso dei rapporti tra uomini e cose, più solidamente ancorati alla forza istituente delle procedure del diritto. E queste procedure sono tanto delle definizioni qualificate a un'opera di un'autorità quanto delle decisioni scaturite da una controversia giudiziaria. Nel perimetro così allestito, le cose acquistano un significato valido per tutti, cioè si socializzano. Questo è un passaggio dirimente che fa di questo studio sulle cose nel diritto anche un motivo di vibrante polemica tra Thomas e le scienze sociali, al punto che il contesto in cui il saggio fu ospitato, le "Annales", deve far riflettere sulla necessità per le scienze sociali d'inocularsi a mo' di vaccino rivitalizzante un siero a lungo rifiutato come pericoloso: "Se non si comprende che la storia del diritto partecipa a una storia delle tecniche e dei mezzi attraverso i quali si è prodotta la messa in forma astratta delle nostre società sfuggirà praticamente tutto della singolarità della storia e della specificità del suo oggetto". Ciò significa che è reputata ingenua, se non in malafede, ogni lettura sociale volta ad accorciare le distanze tra regole astratte e attori in carne ed ossa, inseguendo una trasparenza tra i due piani e non considerando, invece, la forza trasformatrice di questo rapporto propria alle mediazioni del diritto. Si tratta di una gigantesca impresa di tipizzazione astratta che non aliena l'uomo da una sua essenza, ma lo situa nello spazio in cui sono sospese le specificità individuali e una distanza s'interpone tra gli attori affinché un'oggettività dei rapporti sia possibile.
Forte di premesse così contundenti, Thomas dipana agli occhi del lettore una storia scandita dalla progressiva cattura giuridica delle cose, operazione che avviene in due tempi tecnici: qualificazione e valutazione. Le res romane non esistono se non organizzate, sono ascritte a diverse categorie ma riducibili a una summa divisio che le fonti giuridiche repubblicane e imperiali attestano con coerenza: da un lato ci sono le cose sacre e pubbliche caratterizzate dall'inappropriabilità, dall'altro le cose lasciate alla sfera della circolazione commerciale e come tali appropriabili. Qui lo studio scardina un tenace dogma ideologico del diritto romano: l'appropriazione privata delle cose non è un dato primordiale e non è neppure sancita dai testi normativi, mentre la preoccupazione principale dei giuristi è individuare innanzitutto le cose sottratte alla sfera del commercio e come tali sottoposte a un regime d'indisponibilità: sono quelle che la giurisprudenza imperiale unifica nella formula paradossale delle res nullius in bonis, "cose appartenenti a un patrimonio che non appartiene a nessuno". Vi sono incluse le res sacre (riservate agli dei celesti), le religiose (luoghi di sepoltura riservati agli dei mani), le sante (mure urbane e castrali) e le pubbliche (al cui interno si distinguono i beni di cui la città può disporre e quelle che invece sono sottoposte a un vincolo di destinazione per cui solo l'uso di tutti è consentito: piazze, teatri, mercati, strade, litorali, condotte d'acqua). Nessuna di queste cose possedeva una funzione intrinseca, solo un preciso atto di diritto pubblico o sacro poteva inscriverle in una riserva di non alienabilità. La sfera delle cose commerciabili veniva logicamente e giuridicamente in esistenza come puro effetto negativo di questa preliminare opera di santuarizzazione, la sola ad aver mobilitato le risorse del pensiero giuridico. Tutt'altro che espressione immediata dell'esistenza umana, il diritto dei beni circolabili e appropriabili, cioè il diritto privato, arriva in seconda battuta, quando la cartografia delle cose è già stata fissata dal potere. Ma c'è un vulnus più profondo che lo studio di Thomas infligge all'ideologia "privatistica" e all'antropologia che la innerva: una volta liberate dall'interdetto sacrale e pubblico – e il diritto romano prevedeva tutta una serie di meccanismi di mobilità di beni che potevano entrare e uscire dalla sfera del'indisponibile – le cose patrimoniali erano valutate non già sulla base dell'autonomia negoziale degli attori, bensì in virtù di un preciso passaggio istituzionale che vede nel processo, più che nello scambio, la fonte di produzione del valore. Il termine res designa infatti anche il processo, cioè la causa, che si sdoppia semanticamente nella "cosa messa in causa e nella messa in causa della cosa", come precisa l'autore con chiasmo efficace. Il pretium definito in quel contesto, cioè il valore della posta in gioco, non era la ritualizzazione di un'economia dello scambio, ma innanzitutto un criterio per identificare la cosa oggetto di controversia. La valutazione monetaria delle cose prese nelle maglie della procedura riguardava poi solo le cose private, mentre le pubbliche e sacre restavano letteralmente inestimabili perché sottratte al circuito del commercio. Come si vede l'anti-ontologia di Thomas acquista dimensioni programmatiche perché fa giocare l'astrazione formale del diritto come risorsa per neutralizzare quella che è anche un'astrazione, ma di tipo sostanziale: l'ineffabile Natur der Sache, l'essenza delle realtà giuridiche cui l'artificialismo dell'autore non fa sconti. Secondo lui: "È un errore prospettico considerarle (le cose), come si è fatto così spesso, dal punto di vista della fisica e della metafisica greca, poiché ciò impedisce di vedere come il loro regime dipendesse in realtà da una costituzione del loro valore".
La vera originalità del pensiero giuridico romano consiste allora nell'aver concepito una vita delle cose lasciando quest'ultime al loro proprio livello, senza farne, come erroneamente ha creduto la tradizione pandettista, delle semplici terminazioni della volontà del soggetto. Né la cosa in sé dell'ontologia, né la cosa per sé della metafisica soggettivistica: la cosa a Roma è pura istituzione e l'attributo della patrimonialità e disponibilità commerciale è solo un precipitato dell'inalienabilità.
Per pervenire a questa tesi di merito, Thomas deve necessariamente riscrivere la matrice genealogica del diritto, in particolare di quello privato. Il sottotitolo dell'originale francese recitava non a caso Il diritto romano fuoriuscito dalla religione. Se la nascita delle cose commerciali a Roma coincide con la loro emancipazione dalla sfera pubblica e religiosa, allora anche quel diritto privato che di queste cose commerciali è la costruzione formale potrà affermarsi solo in opposizione all'universo religioso. La posizione dell'autore al riguardo è la più ferma di tutto il saggio, al punto da essere rivendicata con assoluta intransigenza: il diritto romano nasce in contrasto con la religione e non ne è una filiazione. Di nuovo, senza citare nessuno, l'attacco ai padri nobili delle scienze sociali è evidente e, in particolare, alla sociologia religiosa di Émile Durkheim. Secondo il quale, com'è noto, il diritto è una forma pratica e spirituale che, come ogni altro fenomeno della civiltà, trova nella religione la fonte primordiale e di cui continua a soddisfare, con la specificità del suo apparato pratico-categoriale, l'identica funzione: celebrare la vita collettiva, cosa che la religione ha simbolicamente fatto dietro l'adorazione delle divinità. Per Durkheim la religione è il contenitore unico da cui hanno preso forma tutte le manifestazioni della vita collettiva, così come Louis Gernet, che a proposito della civiltà greca coniò il concetto di pre-diritto, sosteneva che gli antecedenti non esplicitati della funzione giuridica affondavano le radici in credenze e pratiche mitico-religiose. Ora per Yan Thomas questa cinghia di trasmissione tra religione e diritto è stata recisa dall'esperienza romana in cui "le categorie della religione appaiono nella forma più esplicita come l'inverso del diritto", poiché il diritto romano prende coscienza di sé, si autoafferma nel momento in cui pensa il commercio come "rimozione di un interdetto religioso". Liberata dal vincolo religioso la cosa si fa "pura", è cioè sottratta alla destinazione sacrale per immettersi nel circuito del valore. Questa rimozione dell'interdetto religioso libera le cose e schiude simultaneamente il campo del diritto privato. Il "pubblico" resta invece attratto nell'orbita delle cose sacre con le quali condivide, in virtù dell'indisponibilità che le contraddistingue, une vera e propria immortalità giuridica. Ecco che allora una lettura in cavo di questa liberazione del diritto privato dall'influenza della religione ci consente d'interrogare lo statuto complesso del diritto pubblico che permane, invece, nello stesso spazio del religioso. Si tratta di una prossimità che diverrà problematica col costituirsi della religione cristiana nella forma ecclesia e che comporterà evoluzioni storiche precise, tra cui il cesaropapismo orientale veicolato dallo scisma ortodosso è solo la più visibile. Ma dall'osservatorio au ras des choses costruito nelle pagine vertiginose di questo saggio riusciamo a proiettare in una luce totalmente inedita anche problemi teorici notevoli come il rapporto tra Dio immortale e Dio in terra (stato), che gli esausti paradigmi della teologia politica e della secolarizzazione hanno finito per offuscare. Tene rem, il resto segue.