Recensioni / L'esodo dal sistema in cui non ci sono poteri buoni

Intervista | Nel suo ultimo libro Virno propone l’uscita dallo Stato come risposta alla crisi. Nessuna fuga, ma un surplus di azione ben diverso dall’inoperosità del Pulcinella di Agamben

 

Immaginiamo di trovare un manuale di filosofia del linguaggio for dummies, di quelli che si acquistano per imparare a suonare la chitarra da autodidatti o per fare i cocktail a casa. Nella prima lezione impareremmo che il linguaggio serve a rappresentare i fatti che accadono nel mondo; nella seconda che le cose non stanno proprio così, poiché espressioni come "grazie" o "evviva" non descrivono nessuno stato di cose osservabili nel mondo che ci circonda. A quel punto chiuderemmo il nostro stupido manuale, più confusi di prima, e dovremmo iniziare a leggere L`idea di mondo (Quodlibet, 2015, euro 16,50), l’ultimo libro di Paolo Virno, filosofo italiano tra i più letti e tradotti all’estero.

A partire dalla fine degli anni Sessanta Virno svolge un’intensa attività politica in Potere operaio e nel 1977 fonda la rivista «Metropoli». Dopo la lunga vicenda giudiziaria del processo 7 aprile 1979, che si conclude per lui con la piena assoluzione nel 1988, insegna filosofia del linguaggio in diverse università, dedicando la sua riflessione a tematiche linguistiche, antropologiche e politiche e soffermandosi sul legame tra forme di vita, costrutti logico-linguistici e tonalità emotive caratteristiche della contemporaneità.

I tre saggi raccolti nel volume passano in rassegna i concetti di contesto sensibile, sfera pubblica/azione politica e la nozione di uso. Tra la stesura dei primi due saggi, già pubblicati nel 1994, e dell’ultimo sono passati vent’anni di vita politica e di ricerca filosofica.

Secondo Virno, il problema teorico posto dall’idea di mondo è che concependo un simile pensiero siamo sempre proiettati al di là del nostro oggetto d’indagine: è ciò che non riusciamo a rappresentare, perché è ciò in cui siamo immersi. Quando si cerca di fare i conti con l’idea di mondo, la si trascende, dal momento che si prova a vedere il reale dal di fuori. Questo dà luogo a una frustrazione istruttiva e necessaria, l’esperienza del limite. Ma il mondo non è solo il luogo in cui siamo immersi: esso rappresenta anche una minaccia, un repentaglio assoluto, contro cui cerchiamo un riparo che ci metta al sicuro. L’autore prova quindi a riscrivere in termini materialistici queste due esperienze, ampiamente trattate dalla grande filosofia, opponendovi nel suo libro l’idea di contesto: per sua natura grezzo e amorfo, il contesto è uno sfondo che non può mai essere messo a fuoco, a differenza del concetto di mondo che presentala realtà come un qualcosa di concluso e pienamente attuato.

 

Nel primo saggio del libro, intitolato Mondanità, lei si concentra sul problema filosofico posto dall’idea di mondo nella duplice accezione di contesto sensibile e sfera pubblica. In che modo questo concetto mostra la propria connessione con l’azione politica?

«Anche i riti e le istituzioni politiche formano un contesto, che chiamiamo sfera pubblica: essi non sono altro che un tentativo di crearsi un riparo rispetto all’indeterminatezza del mondo. La ricerca di sicurezza è faccenda di molti: non è l’individuo a crearsi un riparo, ma la moltitudine metropolitana accomunata dal sentimento di non sentirsi a casa propria. D’altra parte, i ripari stessi a volte si mostrano minacciosi: prendiamo l’esempio della furia per la carriera o la costruzione di una piccola patria lombarda. Ciò che invece rassicura la moltitudine degli sradicati è il venire a galla, nella società contemporanea, delle strutture comuni che costituiscono la vita della mente: forme di ragionamento talmente generali che non possono mai mancare (come le relazioni di reciprocità o i rapporti di grandezza). Per lo straniero, l’immigrato, in mancanza di indicazioni certe, è il ricorso alle strutture generali del pensiero e del discorso che permette di salvare la pelle. Queste strutture comuni della mente, questo intelletto generale, si deve spazializzare, cioè deve dar luogo a una sfera pubblica, si deve tradurre concretamente in una comunità politica. I pensieri che rimangono compressi diventano funzionali ai processi di produzione, e abbiamo così l’intelligenza messa al lavoro. Ma la pubblicità della mente che non si traduce in comunità politica diventa minacciosa: i casi sotto i nostri occhi sono molteplici, e qui sarebbe fin troppo semplice parlare di internet o Facebook».

 

Il saggio Virtuosismo e rivoluzione, in cui presenta queste riflessioni, è stato pubblicato per la prima volta nel 1994. Negli ultimi vent’anni come è cambiata la situazione?

«La situazione non è cambiata perché è mancato il secondo termine cui fa riferimento il titolo del saggio [ride]. Anzi, c`è stato un incremento del carattere atopico, non spaziale, della vita della mente. E cresciuta a dismisura una pubblicità senza sfera pubblica. I tentativi, grotteschi o promettenti, di spazializzare l`intelletto sono stati rudimentali, non sono diventati un esempio».

 

Perché si è interrogato sulla nozione di uso? C’è una relazione tra questo e l’azione politica?

«Il rapporto, se c’è, è indiretto. Credo che tutti gli usi che possiamo immaginare (degli oggetti, delle parole), siano riconducibili all’uso fondamentale che facciamo di noi stessi, della nostra stessa vita. Che cosa significa usare la propria vita? Non coincidere con essa: è ciò che mostra in maniera esemplare il mestiere dell’attore teatrale, che può impersonare vari ruoli perché non si identifica con i diversi personaggi. Ma, per tornare al tema dell’azione, l’uso è la premessa, il fondo comune di ciò che chiamiamo produzione e di ciò che chiamiamo politica. È errato contrapporre l’uso al lavoro e all’azione, come è stato recentemente fatto [da Agamben nel volume L’uso dei corpi, 2014, ndr]. Tipico dell’economia contemporanea è il fatto di trattare come beni di consumo quelli che sono invece beni di uso: di un barile di petrolio, dopo che l’ho consumato, non rimane più niente. La lingua italiana, invece, può essere usata ancora e ancora. Una scoperta biologica, per esempio, che potrebbe essere usata più volte, viene brevettata, viene trattata come un bene che può essere consumato una sola volta da un sola soggetto. Questo sistematico quid pro quo è l’asse portante del capitalismo contemporaneo, ma anche un focolaio della sua crisi permanente. A questa situazione ormai insostenibile è necessario opporre una via d’uscita».

 

Nel suo libro individua un’alternativa al sistema politico-economico attuale in quello che chiama esodo. Vede esempi concreti?

«La via d’uscita di cui parlo è la costruzione di una sfera politica della moltitudine, di una repubblica non più statale. L’esodo è un diniego, un rifiuto nei confronti del tentativo di prendere il potere. Significa costruire un nuovo contesto che implica una fatica solidale per "uscire dall`Egitto", come nel libro biblico dell’Esodo. Ciò richiede la costruzione di nuove istituzioni e un alto grado di intraprendenza. Alcuni esempi: alla fine degli anni Settanta una generazione scelse di abbandonare l’ergastolo del posto fisso salariato, privilegiando lavori sporadici e colorando di una tinta antagonista la flessibilità. Poi sappiamo che questa flessibilità è diventata una legge oppressiva e tirannica. Penso inoltre ai movimenti agli inizi degli anni Duemila: a torto chiamati no global, se ci sono movimenti globali sono quelli, semmai si potrebbero chiamare "alter globalisti". Hanno cercato vie di fuga collettive e intraprendenti, con intenti fondativi. Un altro esempio, in cui diventa centrale il diritto di resistenza (inteso come conservazione di diritti acquisiti) è il caso della Val di Susa: quello è il caso di una sottrazione intraprendente che costruisce nuove forme di cooperazione e istituzioni non statali. Per certi versi potremmo pensare anche a Occupy Wall Street, ma quel movimento ha dato più che altro un’indicazione simbolica».

 

In contrasto con la sua riflessione, da più parti oggi viene proclamata la morte dell’azione politica. Giorgio Agamben ha recentemente parlato sulle colonne di «pagina99» di Pulcinella come della «figura di un’altra politica, che comincia quando ogni azione è diventata impossibile». Pulcinella è «insensato e vile», fugge, è un personaggio anarchico e incarna un «modello destituente»: è questo il futuro della politica?

«Agamben è il filosofo contemporaneo più rilevante quando si occupa di linguaggio o di teologia, ma è cieco al significato della politica (naturalmente non parlo della politica pratica, ma della teoria). Queste ultime riflessioni sono un modo di deturpare fino alla parodia il modello politico dell’esodo: di tutto si tratta tranne che di una via d’uscita in punta di piedi, di una scelta estetico-esistenziale. Niente a che vedere con il termine "inoperosità": l’esodo richiede un surplus di attività rispetto a quella storicamente prevista per la presa del potere. Il termine inoperosità è equivoco: è vero che la prassi umana, l’azione, non dà luogo a un’opera esterna ed è fine a se stessa, ma dire che è inoperosa suggerisce che non è neanche più un’attività. Anziché attività senza opera, si ha a che fare con un’attività che compie la propria autosoppressione. Un simile esito è del tutto impolitico».