Recensioni / Medioevo buffo e gioioso, torna Il pataffio di Luigi Malerba

Il pataffio (1978) di Luigi Malerba è un romanzo modernissimo. Non so se si possa affermare, di un romanzo, che sia modernissimo o vetustissimo, ma Il pataffio dà anche oggi una tale sensazione di modernità che conviene sottolineare subito, anche perché la nostra attuale narrativa è così scalcinata e povera da non offrire – nemmeno al più volonteroso dei lettori – il benché minimo appiglio di sollievo o di gioia. Malerba, invece, davvero aggancia subito il suo lettore, lo tiene lì, lo inchioda alla realtà tanto inventata quanto sorprendentemente verosimile. Il pataffio è il romanzo del Medioevo, un Medioevo alla Merlin Cocai o alla Dario Fo (il primo Fo) tutto trapuntato di divertimento e di invenzioni lessicali, morali, satiriche e sociali. Malerba, in quel tardo tempo degli anni Settanta scopriva la «razza de serpenti, de vermini, de paraculi!" e trafficava già con quella «Armata Brancaleone» che nel film di Monicelli troverà glorificazione di lingua, di avventura e di storia. Eppure, al fondo di questo sapidissimo affresco c’è una vena di malinconia che il marconte di Cagalanza e la marcontessa Bernarda, al centro di una strampalata corte grassa, disordinata, affamata e francamente pagliaccesca, non riescono a controllare, mentre frato Capuccio, Berlocchio, Ulfredo e i villani di Tripalle si giocano la cita per contendersi «polenta salame pagnotte salsicce, robba da magnare, lumaghe, zucche, pochette e patate fritte». Insomma: tutti sono alla fame, perché è la fame che sta al centro del romanzo ed è la sua modernità, il motivo conduttore dell’intera vicenda. La fame, e assieme alla fame, i meccanismi del potere cui Malerba strizza l’occhio come quando aveva fatto la regia del film Donne e soldati (Parma, 1955) di simile e buffo argomento medievale. Ma Il pataffio che ora viene utilmente riproposto da Quodlibet Compagnia Extra – rappresenta anche l’esito finale di quella commistione di linguaggi che caratterizza tutta l’opera narrativa di Malerba, da La scoperta dell’alfabeto (‘63) a Il diario di un sognatore (‘81) attraverso il latino maccheronico dei frati, l’italiano delle preghiere, il dialetto ciociaro (o ciò che il narratore giudica in questa maniera) e poi «il magnare» una lingua che si torce su se medesima in un potente e istrionico complesso espressivo usato per far spazio ai costumi e ai comportamenti, proprio come accade oggi in un mondo pieno di figli di «matrignota».