Recensioni / Oltre il fascino discreto dell'utopia

Tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta si consolida definitivamente uno dei più suggestivi e ambigui paradigmi del ventesimo secolo: l’idea di network e della comunicazione globale. È interessante notare che questo paradigma prende forma anche attraverso l’intreccio tra architettura, urbanistica e l’allora neonata scienza della comunicazione. Nel 1963 a bordo di una piccola nave da crociera che naviga per otto giorni tra le isole greche, ricordando palesemente l’avventura del Patris II avvenuta trenta anni prima, l’architetto e urbanista greco Costantinos Doxiadis ed un numero considerevole di studiosi provenienti dalle più diverse discipline, tra cui figurano il giovane Marshall McLuhan e il vecchio Buckminster Fuller, si incontrano per discutere di come il fenomeno dei Networks, vale a dire le reti visibili e invisibili attraverso le quali si svolge la comunicazione ed il movimento tra diversi sistemi di individui e di oggetti, stia rimodellando il pianeta intero come una sorta di villaggio globale. Il meeting che partorirà la poco conosciuta ma straordinariamente profetica (nel bene e nel male) dichiarazione di Delos e che si articolerà attraverso le pagine della rivista di Doxiadis “Ekistics” sviluppando un'eco persistente fino alle chiacchere odierne sul digitale, costituisce il punto di arrivo di una presa di coscienza del fenomeno della comunicazione ancora esente dai dubbi e dalle critiche che accompagneranno fino ad oggi il concetto stesso di globalizzazione.

Non è un caso se Reyner Banham situa tra il 1963 il 1964 l’anno della Megastruttura e della grande dimensione, vale dire la risposta architettonica ai temi sollevati da Fuller già molti anni prima. Proprio in quegli anni si configura definitivamente il contributo teorico dei protagonisti del Team Ten, i quali avevano individuato nel network il dispositivo chiave nell’evoluzione della città, e inizia ad emergere come nuovo mainstream il lavoro spensierato degli Archigram, di Cedric Price e delle capsule metaboliste dove comunicazione, tecnologia, cibernetica sono ancora gli ingredienti innocenti con i quali costruire il paesaggio urbano del futuro.

 Questo ottimismo sarà destinato a durare poco. Già a partire dalla metà degli anni Sessanta, con le prime avvisaglie della contestazione giovanile, inizia a serpeggiare un certo sarcasmo se non critica aperta nei confronti del candido entusiasmo con il quale le generazioni precedenti avevano pacificamente assorbito il mito della tecnologia e della comunicazione entro una visione lineare della società, una visione che non aveva poi del tutto rotto con lo spirito riformista della prima modernità (si pensi al lavoro storico e critico di Banham stesso, impegnato nel difendere l’eredità del movimento moderno e nell’appoggio militante del nuovo Brit-Pop anni '60). All’opposto delle utopie di massa evocate dagli Archigram e da Constant e dai loro seguaci, iniziano a prendere forma le utopie individuali; al sogno di un continuum urbano senza soluzioni di continuità, viene contrapposta l’idea di una progressiva discretizzazione dello spazio in parti separate, isole dove sia possibile una transazione diretta tra diversi individui senza l’influenza omologante dei media e della tecnologia e dove, perciò, sia immediatamente realizzabile l’utopia di un capovolgimento istantaneo della realtà.

Basti pensare a progetti come Exodus dell’OMA nel quale, tra l’atro, i suoi prigionieri volontari non possiedono radio, televisioni e giornali e socializzano soltanto attraverso l’idea antica delle terme intese come avanzato sistema di interscambio personale, il progetto Zeno di Superstudio che si incentra sulla documentazione della cultura materiale della civiltà contadina come una sorta di minimale vocabolario urbano, le tecniche povere di Riccardo Dalisi e le ricerche di Lisellotte e Oswald Mathias Ungers sulle comuni americane dove viene messo in evidenza il concetto di economia materiale, abolizione della proprietà privata segregazione e inclusione come forma di realizzabilità di una comunità autosufficiente secondo i principi che legano le prime comunità degli Shakers e dei Rappisti alle circa duemila comuni sparse negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta. Insomma all’utopia totalizzante dei flussi e della comunicazione globale viene contrapposta l’utopia realizzabile entro i limiti nei quali la sua istituzione dipenda esclusivamente dalla volontà degli individui stessi.

È in questo clima di transizione che Yona Friedman pubblica, nel 1974, Utopie Realizzabili oggi riproposto nella bella traduzione di Susanna Spero da Quodlibet in una versione riveduta dall’autore in occasione della sua ristampa. Friedman, architetto di origine ebrea ungherese e francese di adozione, è sempre stato frettolosamente messo nel calderone della neoavanguardia megastrutturalista degli anni Sessanta grazie alla sua assai pubblicata proposta di una Ville Spatiale, una struttura tridimensionale, sollevata da terra capace di contenere ed articolare un modo di abitare la città organizzata secondo il principio della flessibilità. In realtà il percorso di Friedman è stato ben diverso da quello seguito dai protagonisti dell’Architettura Radicale e solo apparentemente parallelo ai temi sviluppati in quell’ambito.

Quando nel 1958 scrive il manifesto per una Architettura Mobile Yona Friedman ha già partecipato, come architetto e come carpentiere, alla costruzione dei primi insediamenti residenziali nella neonata nazione di Israele. Per questo motivo il suo interesse ai temi cari all’avanguardia, come flessibilità e effimero, (oramai svuotati definitivamente di senso dagli slogan che ci hanno allietato negli ultimi anni) avrà nel concetto di realizzabilità il suo vero obiettivo. Sebbene l’iconografia infantile dei suoi progetti sembri tradire la tipica facilità dei grandi sogni di carta, Friedman ha sviluppato nel suo lavoro un vero e proprio approccio tecnico e scientifico ai problemi della città e della sua costruzione, non nel senso pretenzioso del determinismo statistico al quale i vari datascapes odierni ci hanno abituato ma come tecnica dell’immaginazione come, parafrasando Gianni Rodari, visionaria grammatica della fantasia. Se Toward a Scientific Architecture, scritto nel 1967, cerca di sistematizzare una serie di tecniche di calcolo che possono aiutare l’architetto a concettualizzare problemi di natura complessa, nello straordinario e ineguagliato Toward a Poor World or how scarcity might prevent catastrophe, pubblicato nel 1973 Friedman affronta un tema quasi mai sfiorato dal pensiero architettonico e urbanistico vale a dire in che modo si possa enunciare un progetto di ambiente abitabile in condizioni di assoluta scarsità materiale e come questa condizione possa divenire l’essenza stessa del progetto, la sua qualità ideologica e formale; un tema che anticipa di molti anni il terzomondismo alla Koolhaas che ha recentemente studiato una metropoli tragicamente povera come Lagos in quanto possibile scenario urbano del futuro.

Utopie Realizzabili propone lo schizzo di una teoria sociale, o sarebbe meglio dire una visione sociale, nella quale prendono forma, in modo chiaro e semplice, le modalità entro le quali sia possibile la realizzazione di una utopia, non nel senso letterale del termine, vale a dire un luogo che non esiste, ma nel senso che ha storicamente acquisito, vale a dire un luogo ove sia possibile colmare pienamente la distanza tra progetto di una realtà desiderata e la sua costruzione, tra desiderio e soddisfazione. Per raggiungere questo scopo, che coraggiosamente viene dato per scontato sin dall’inizio del libro, l’autore non dissimula la sua visionarietà con il ricorso a riferimenti, dati statistici, trattati sociologici, fonti autorevoli e mappature di tutte le possibili complessità e contraddizioni del pianeta. Friedman dimostra come il linguaggio stesso, la sua forma, la sua capacità di rappresentare, di plasmare e di rendere intellegibile una forma di pensiero sia l’unità di base ma anche la conditio sine qua non della costruzione utopica.

È la comunicazione, dunque, intesa nella sua concretezza materiale di linguaggio e non nella sua versione caricaturale costituita dalla comunicazione di massa, dal network globale, dalle promesse dell’informatica, l’elemento cardine di questo piccolo trattato. Per renderla effettiva e dunque potenzialmente strumentale, Friedman la riduce alla sua condizione fisiologica, a ciò che egli chiama valenza, ovvero la proprietà che definisce il numero di centri d’interesse su cui un uomo può coscientemente concentrare la propria attenzione, rinunciando in questo modo all’illusione che le protesi mediatiche possano facilitare e anzi moltiplicare la sua capacità cognitiva. Partendo da questo dato di fatto, Friedman costruisce analiticamente uno scenario in vacuo nel quale l’intero sistema sociale è costruito su una unità di base intellegibile che è l’individuo e la sua capacità di comunicare con gli altri e dunque di stabilire una società nel senso concreto e originale del termine, ovvero come un insieme di esseri umani e oggetti collegati da un sistema di influenze esercitate solamente attraverso la capacità comunicativa dell’individuo stesso.

Per questa ragione Friedman propone la formazione di piccole comunità, denominate Gruppo Critico, nelle quali possa prendere forma questa economia della comunicazione. Aldilà del giudizio che si può esprimere su queste scelte affatto discutibili, l’ipotesi appare assolutamente radicale e sopratutto comprensibile e perciò per definizione inapplicabile in un mondo che ha fatto del compromesso e della mistificazione la ragione stessa della sua sopravvivenza. Ma è proprio questa assolutezza, a mio avviso, la straordinaria qualità del libro; assolutezza nel suo non ricorrere alle facili scorciatoie della rassegnazione sociale, della demagogia con la quale si affermano le ragioni del pragmatismo ma anche del fascino discreto dell’utopia intesa come un accattivante e generico apparato retorico di tutto ciò che è “nuovo” e “giovane”. Ciò che Friedman propone, in sostanza, è una assiomatica della società la quale presuppone, in primo luogo, lo stream of consciousness di ciascun individuo (un concetto che sicuramente scandalizzerà molti in tempi di relativismo sociale assoluto); una assiomatica che presuppone un progetto che non si risolve nella sua semplice illustrazione ma nella sua spiegazione razionale la quale riconosce al progetto stesso non uno statuto normativo, ma il ruolo di mental habit, di consapevolezza critica da applicare, di volta in volta, nei casi più specifici.

Per quanto il paragone possa sembrare bizzarro, Utopie Realizzabili ricorda il Principe di Machiavelli nel quale Gramsci ci ha insegnato a comprendere che l’assolutezza e il rigore del trattato non erano solamente strumentali alla presa del potere da parte di un capo ma servivano a rendere palese l’esistenza di un progetto inteso come criterio dell’agire, la cui comprensione costituisce la garanzia di una sua realizzabilità da parte di chi partecipa e non soltanto subisce questo progetto. Ma al malinconico pessimismo dell’intelligenza che spinge Machiavelli a far ricorso al potere assoluto di un individuo pur di dar forma concreta alla passione politica di una collettività, Friedman oppone l’ottimismo della volontà di credere che è la collettività stessa a darsi una forma riconoscibile; ed anche se questa è generata da ciò che fino ad oggi è rimasto un mito impossibile, l’auto-organizzazione, la sua realizzazione presuppone paradossalmente l’esistenza di una principio progettuale.

Naturalmente il libro è cosparso di concetti che oggi, a trenta anni dalla sua pubblicazione, rischiano di essere quello che Barthes definiva “verosimile critico”, vale a dire un repertorio di abusati luoghi comuni critici tra cui il concetto di utopia stesso e l’idea di comunità che sempre con più insistenza viene evocata come una sorta di soluzione finale di tutti i guai causati dalla globalizzazione. Ma è la sobrietà del racconto di Friedman, la sua disarmante e severa semplicità a garantire una lettura non viziata dall’immaginario corrente a base di facili entusiasmi per il nuovo e interpretazioni sociologiche di terza mano. Il testo di Friedman si regge miracolosamente su se stesso, sulla forza di persuasione della sua chiarezza senza il ricorso a effetti speciali o riferimenti di sorta.

Anche se si tratta di un libro di oramai quasi trenta anni che, come abbiamo visto, appartiene ad un momento preciso della ricerca, (un momento che occorre anche seriamente storicizzare e non ritenerlo eternamente “attuale”), la critica implicita nella sua rigorosa visionarietà sortisce ancora un effetto devastante nei confronti dell’ottimismo infantile e acritico con cui la cultura architettonica e urbanistica ha registrato qualsiasi cambiamento della comunicazione e dei modi di abitare il mondo. Un mondo a cui, come ci insegna Friedman, occorre anche iniziare a dare una sua intellegibilità, rinunciando a quel fatalismo al quale il mito della dispersione e della crescita incontrollata dello spazio urbano ci hanno abituati.