Recensioni / e Lenin inventò il family sharing

Revival | In Russia torna in forme nuove la kommunal’ka, l’alloggio collettivo che segnò la vita nell’Urss

 

Nella lista 2016 di luoghi da tutelare, il World Monuments Fund ha inserito ancora una volta l’edificio del Narkomfin a Mosca. Difficile che il 2016 sia l’anno giusto per salvare la "casa-nave", come viene spesso chiamato il capolavoro costruttivista realizzato tra il 1928 e il 1930 da Moisej Ginzburg e Ignatii Milinis: oltre a essere in uno stato miserevole, il fabbricato si trova in una zona centrale della capitale russa ed è oggetto di notevoli appetiti, non proprio una garanzia per il rispetto del progetto originario. Un progetto, per Edwin Heathcote, critico di architettura del Financial Times, «tra i più radicali del suo tempo»: ad alloggi piccoli o piccolissimi corrispondevano ampi spazi collettivi - cucine, lavanderie, asilo nido concepiti per liberare le donne dai «meschini lavori domestici» che le incatenavano, come aveva affermato Lenin nel ‘19. Nella costruzione dell’uomo nuovo, obiettivo del giovanissimo Stato sovietico, la casalinghitudine non aveva diritto di cittadinanza. In questo senso, anche se forse non se ne rendevano conto (e cominciarono presto a modificare in senso più tradizionale gli spazi), i dipendenti del narodnijkommissariat, il commissariato popolare delle finanze, abitanti della "casa-nave", erano dei privilegiati, perché disponevano di un alloggio privato, sia pur minuscolo.

Per la maggior parte degli abitanti di Mosca e di Leningrado la situazione era ben diversa. L’utopia (per molti discutibile) di una vita comunitaria si traduceva nella quotidiana realtà di doversi stringere con la famiglia tra le pareti di una stanza, condividendo con estranei i luoghi più intimi dell’esistenza. Era la dura vita della kommunal’ka, dove dei propri vicini «si conoscevano a memoria le mutande stese nei corridoi», come ricordò in seguito il poeta Iosif Brodskij, uno tra i tanti autori, cineasti, drammaturghi, che di questa coabitazione forzata scrissero con toni diversi - di satira, di (per lo più contenuta) denuncia, infine perfino di nostalgia.

La kommunal'najakvartira era nata, in effetti, come soluzione di emergenza, la risposta alla crescita rapidissima delle due capitali, quella nuova - o ritrovata - e quella vecchia, negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre. Come tante soluzioni di emergenza, la kommunal`ka avrebbe avuto vita lunga (ancora negli anni ‘80 si calcolava che il 40% delle case nel centro di Leningrado fossero in coabitazione), ma nella prima fase dell’Urss la uplotnenie, la condensazione, era parsa l’idea giusta per dare un tetto alle decine di migliaia di persone che arrivavano dalle campagne o per trovare una sistemazione dignitosa per tutti coloro che, in epoca zarista, erano stati costretti a vivere in umide cantine o in gelidi sottotetti. Una condensazione di spazi e di persone: «A ridosso della rivoluzione», scrive Laura Piccolo in un saggio sulla kommunal’ka nel volume Letteratura e geografia (Quodlibet 2013), «l’innalzamento di tramezzi e muri negli appartamenti nobiliari e borghesi consente di stipare accantoagli ex proprietari famiglie di lavoratori, in prevalenza operai».

 Arrivato a Mosca alla metà degli anni ‘20, Walter Benjamin annotava in uno dei suoi Ritratti di città: «Abitazioni, che una volta accoglievano con le loro cinque, otto stanze un’unica famiglia, ora ne ospitano spesso sino a otto. Passata la porta di ingresso, si entra in una piccola città. Più spesso ancora in una piazza d’armi». In effetti il clima che si respirava in una kommunal’ka era spesso bellicoso. E come sarebbe potuto essere altrimenti, visto che osserva ancora Laura Piccolo - «il predominio del collettivo sull`individuale» era continuo e assillante, e l’esistenza del cittadino veniva «rigidamente scandita anche nelle sue manifestazioni biologiche (giorno eorario del bagno e del bucato, turni di corvée)»? Il cambio di una lampadina bruciata, una padella scomparsa, una macchia sul pavimento del corridoio: infiniti erano i potenziali motivi di frizione, di scontro o di lunghe faide, senzaparlare di cause ben più serie, come le delazioni incrociate ai tempi delle purghe staliniane e anche oltre.

Eppure, misteriosamente, la vita della kommunal’ka aveva anche il suo fascino, simile a quello di un villaggio medievale, con la sua strada principale (il corridoio) e la sua piazza del mercato (la cucina), dove gli abitanti si scambiavano oggetti, piccoli prestiti, consigli. Il paragone è di un altro poeta, Lev Rubinstein, che su meschinerie e grandezza delle case in coabitazione ha scritto un bel testo, leggibile all’interno di Communal Living in Russia: A Virtual Museum Of Everyday Soviet Life (kommunalka.colgate.edu), vero e proprio baedeker di un luogo di un'altra epoca.

Di un’altra epoca? Non proprio: lo scorso novembre è stato pubblicato uno studio che mostra un vertiginoso aumento di coabitazioni a Mosca, dal 38% al 57%. E non si tratta, come negli ultimi anni, di studenti o di lavoratori provenienti da altre zone della Russia, ma di famiglie, che scelgono di vivere sotto lo stesso tetto «come misura anti-crisi». Nuovo cohousing o vecchia kommunal’ka? Il problema forse sta solo nel nome.