Dopo il rigore visionario del recente Persone del seguito (Cronopio, 2013), ecco un altro libro capace di insinuarsi nell’occlusione acustica dell’orecchio contemporaneo per sondarne la caparbia sordità alla voce. Teatro tacito, modellato con tagli e aggiustature sull’idea del mimo antico, è scrittura ed ascolto insieme. Situs inuersus: Clio Pizzingrilli inverte poeticamente (il primo capitolo si intitola Exodus) il luogo in cui, come in un imbuto, è finita la parola. Solo così la voce, come da un inferno linguistico di sordi parlanti, tornerà ad affiorare. Se la voce, infatti, è la scena originaria dell’alterità ed è prima di tutto suono, essa esige un’attenzione che si confonde con la preghiera. Esige nel contempo l’allerta dei sensi, (qui l’orecchio) di cui Ivan Illich aveva lamentato la perdita nella modernità. Attento al suono della parola, Pizzingrilli, con un gesto dirompente e compassionevole che lo pone a un indiscutibile vertice poetico, esegue una partitura per voce sola e plurima trascrivendola al di là di ogni convenzione. Eppure è secondo la morfologia teatrale (esodo, parodo, monodia, stasimo, come nella tragedia greca), familiare a Pizzingrilli che di teatro si occupa da autore e regista, che il tessuto sdrucito della voce contemporanea viene ricucito, messo in prova e indossato da ipotetici parlanti, profeti della tradizione come trasmissione orale. Pizzingrilli intende esserne, con questo libro irrefrenabile e perfetto, il testimone acustico capace di rimandare a quel ritmo originario dell’essere che la punteggiatura non farebbe che turbare, impedendo di avvertire l’impercettibile ma ostinato andirivieni dalla parola. Rantolo e vagito del presente. E questo che disturba e attrae. L’esordio è chiaro: "Che venga parlando nessuno sa chi è". Sarà Eros, il dáimōn di cui parla Diotima nel Simposio? Forse.