Recensioni / A volte le parole ingannano. Ci è cascato anche Aristotele

Forza e debolezza del linguaggio: un lavoro di archeologia del pensiero nel nuovo lavoro di Giorgio Agamben

Così come una volta gli scrittori e gli altri artisti nutrivano un certo interesse per le teorie filosofiche in voga, che poteva indurli a pericolosi passi più lunghi della gamba, oggi molti filosofi tirano fuori dal cassetto romanzi non sempre degni dell'acutezza del loro pensiero teorico, o si dedicano ai classici della letteratura con una certa dose di sorprendente ingenuità, come se fossero stati i primi al mondo a rendersi conto della grandezza di Leopardi o Dostoevskij. Queste forme di raffinato dilettantismo sono solo la parodia dell'unità dei saperi come potevano concepirla e praticarla gli antichi. Proust affermava
giustamente che il dilettantismo «non ha mai portato a nulla», ma assieme a questo bisogna sempre convocare sul banco degli imputati il suo gemello segreto ed eterno complice, che è lo specialismo.
Ogni anno che passa, la strettoia si rivela più difficile da superare, per quei pochi che cerchino altro, animati da un desiderio di libertà e conoscenza autentica. E l'opera di Giorgio Agamben, considerata nella sua integrità, assume sempre di più l'autorevolezza di un esempio e di un antidoto. A partire dagli anni Ottanta, libro dopo libro, Agamben ha individuato un «luogo» del pensiero estraneo sia al baraccone giornalistico-televisivo dell'opinione in pillole, sia a quella specie di prolungata follia che è una carriera accademica priva di contatti col mondo esterno. Potremmo forse definire questo luogo come l'«amicizia» invocata all'inizio del suo ultimo libro Che cos'è la filosofia? (Quodlibet). Le parole di questa «Avvertenza» meritano di essere meditate. Può capitare a chi scrive, ammette Agamben, di vivere in un'epoca che (a torto o a ragione) «gli appare barbara», tanto da diminuire e logorare la sua stessa capacità di espressione. Ma non può che continuare per la sua strada, perché il pessimismo «gli è per natura estraneo», e d'altra parte non può affermare di ricordare con certezza un tempo «migliore» del presente. Gli amici, allora, ai quali affida il frutto delle sue fatiche, sono coloro che provano «le sue stesse difficoltà»: senza perdere ulteriore tempo a lagnarsi del mondo.
Va subito aggiunto che l'amicizia che esige Che cos'è la filosofia? sconfina decisamente nell'amore, o perlomeno in una complicità totale, disposta a seguire l'autore in ragionamenti molto impervi. Scaturita da una fondamentale unità di pensiero, l'opera di Agamben si suddivide in testi più «amabili», per così dire, e in altri che possono scoraggiare chi non abbia una consuetudine quotidiana con la storia della filosofia e il suo lessico. Non è una riproposizione della vecchia distinzione di scuola platonica dell'«essoterico» e dell'«esoterico» tanto più che Agamben, mi sembra di capire, non nutre la cieca fiducia di alcuni suoi colleghi sull'esistenza di dottrine non scritte di Platone. Per Agamben, tutto è importante alla stessa maniera, altrimenti non ne scriverebbe.
Semmai, è l'argomento del singolo saggio a dettargli lo stile necessario.

Mi si perdoni l'immagine un po' barocca, ma, paragonando l'opera di Agamben a una stazione sciistica, Che cos'è la filosofia? equivale a una pista nera, la più difficile. Vigliaccamente, quando mi sono preso l'impegno di recensire questo libro, ho rimpianto la possibilità di scrivere su quello precedente, un'affascinante meditazione sulla figura di Pulcinella condotta in dialogo con gli affreschi e i disegni di Giandomenico Tiepolo. Ma la vigliaccheria è il contrario dell'amicizia, e non c'è vera amicizia senza un po' di fatica. Tanto più che non esci mai da un saggio di  Agamben senza avere imparato qualcosa, o aver messo definitivamente da parte qualcos'altro che credevi di sapere e non corrispondeva alla realtà. Il suo rapporto con la storia della filosofia occidentale non è di carattere semplicemente storico, ma archeologico. L'archeologia è parte della storia, senza dubbio, ma alla consapevolezza di venire dopo si aggiunge un atteggiamento esplorativo, una propensione all'indagine, al rovesciamento delle sacre verità più consolidate, anche di quelle che si trasmettono da un manuale scolastico all'altro.
La filosofia è fatta di parole e le parole, fatalmente, si trasmettono deformandosi: per eccesso di interpretazione, per deliberato fraintendimento, o più semplicemente perché non sono più capite, e vengono trascritte in maniera errata. Una sola virgola messa al punto sbagliato, l'omissione di un pronome o fatti del genere possono creare conseguenze a catena capaci di influenzare tutto il corso della metafisica occidentale.
Chi pratica questo genere di archeologia sperimenta simultaneamente la forza e l'intrinseca debolezza del linguaggio. Il suo strumento è l'interrogazione. La domanda concerne un dettaglio, ma se è ben posta allargherà la sua portata come le onde concentriche generate da un sasso buttato nell'acqua. Si veda come Agamben, nel saggio più lungo e impegnato di quest'ultimo libro, inizi con il constatare l'importanza che gli  Stoici assegnano all'aggettivo «dicibile» e giunga, indizio dopo indizio, a formulare un'interpretazione del tutto sorprendente nientemeno che delle famose idee platoniche, che il profano, fin dai tempi della scuola, è abituato a immaginare come una serie di figure geometriche e altri corpi perfetti ruotanti in qualche punto del cielo. Le cose non sono così, ma qui devo fermarmi, perché questo stesso profano, con tutta l'«amicizia» che può riversare in una lettura, ha sempre la sensazione di camminare su delle uova, osando discorrere di tali argomenti.
Una cosa però voglio notarla. A un certo punto, l'archeologia di Agamben ci mostra qualcuno che, pur essendo l'esatto contrario di un incompetente, comunque prende un abbaglio. Aristotele, infatti, equivocando in pratica sul senso di un pronome, sostiene che le idee platoniche sono un'invenzione del tutto inutile. Il fatto che esistano cose che possiedono le stesse proprietà (come i triangoli) non obbliga a postulare un loro archetipo perfetto da qualche parte nel cielo. Sto semplificando troppo, e probabilmente Agamben inorridirebbe leggendo questo mio riassunto, ma in questa storia c'è una morale abbastanza chiara: la filosofia è una cosa così bella e così ardua che anche Aristotele può sbagliare. E non è un errore di pensiero, è un errore di interpretazione, di lettura concreta di un testo, come una specie di impazienza che gli nasconde un significato esatto e prezioso.
Noi da secoli assegniamo all'uomo i tradizionali attributi di «mortale», o «dotato di linguaggio», ma potremmo aggiungere che l'uomo è un animale che non sempre si capisce con il prossimo, e il capire si accompagna fatalmente a un certo grado di difficoltà, e questo vale anche per Aristotele che legge un brano della Settima lettera di Platone. Il senso di ogni parola è come una barchetta di carta sull'oceano. E forse è proprio questo l'argomento principale, il più necessario, di tutta la storia della filosofia.