Recensioni / Architetture nell'Italia della ricostruzione

È l'impegno sociale la chiave interpretativa che Melograni adotta per raccontare la vicenda dell'architettura italiana tra il 1945 e il 1960: nel pieno della Golden Age, ovvero del capitalismo fordista al suo apogeo. Anni connotati dalla crescita dei redditi, dal moltiplicarsi di attività, dal diffuso spostamento verso l'alto delle condizioni di vita. Ma anche dai benefici effetti del welfare e da un eccezionale mutamento dei consumi. In poco tempo si ridefiniscono nuovi assetti nella regolazione dell'economia e della società, entro una prospettiva attenta al miglioramento delle condizioni di vita per la maggior parte della popolazione. È la fase del "capitalismo regolato", segnato da una straordinaria congruenza tra economia, società, territorio. Segno distintivo dell'architettura in questa fase è un funzionalismo che Melograni ci dice subito essere molto meglio delle banalizzazioni di cui è stato fatto oggetto. Il funzionalismo "non è un ripiego, ma un traguardo". Lo è stato nelle prime indagini degli anni venti; nello studio dell'exsistenzminimum; negli esercizi per riordinare gli edifici in moderni tessuti urbani; in quelli per dare una forma fisica, materiale, ai desideri e ai bisogni di una società che stava diventando rapidamente di massa. Un traguardo rapidamente accantonato: invece di perseguire la strada della modernità, si è preferito l'autocompiacimento, il regionalismo, il mito della tradizione locale e dell'artigianato. La posizione di Melograni è netta: sul funzionalismo, sull'Ina Casa, sulla stessa funzione regolatrice dell'architettura. La tesi centrale del libro è che un'architettura autenticamente moderna debba concorrere a rendere migliori le condizioni della realtà. Una tesi che ricorda da vicino quella posizione di Adorno che Gregotti ama molto: un'architettura è degna dell'uomo quando ha, degli uomini e della società, un'opinione migliore a quella corrispondente al suo stato reale.