Un testo inqualificabile. E come qualificare le cronache dall'Italia redatte da una poetessa austriaca e retrodatate a quasi cinquant'anni fa? Precisiamo però; inqualificabile, ma certo non passé, se gli argomenti del giorno, allora come adesso, erano Fiat e disoccupazione, le calamità meteorologiche del Sud é le vicende di casa Savoia.
A Roma, tra il luglio 1954 e li giugno 1955 c'era una ventenne Ingeborg Bachmann alle prese con il resoconto della catastrofe di Salerno e la descrizione dell'ultimo attesissimo modello della «Popolare» 600 Fiat, il matrimonio di una ventenne Maria Pia di Savoia col principe jugoslavo Alexander Karageorgewitsch e «la Gina» nazionale. Una fetta di storia nostrana, dunque: non tanto grossa ma sostanziosa, se era infarcita di eventi come la restituzione di Trieste e il passaggio del testimone tra Einaudi e Gronchi con relativo bilancio dei primi armi della Repubblica, la politica dei sindacati e il lento ma decisivo indebolimento della sinistra dì Nenni e di Togliatti.
Di questo raccontava la Bachmann. Allora già nota e apprezzata autrice della raccolta di poesie (Die gestundete Zeit «Il tempo dilazionato», uscita nel '53), ma non ancora incoronata stella del firmamento letterario tedesco (gli allori sarebbero arrivati di lì a poco; nei 1957, con il Bremer Literaturpreis), la giovane scrittrice sbarcava il lunario inviando a Radio Brema corrispondenze politiche dalla Capitale del Mondo.
Non era un'occupazione di emergenza, vile mestiere per guadagnarsi il pane e alimentare la musa della poesia. La Bachmann infatti, autrice di Hòrspiete, commedie radiofoniche, con l’etere aveva già dimestichezza e (nativa di Kiagenfurt, nella Carinzia che confina col nostro Nord‑Est) grande familiarità con la realtà italiana, la svolse con sensibile attenzione e grande professionalità.
Così, tutte le settimane, sempre di lunedì, riceveva puntualmente la telefonata del suo Caporedattore e con lui concordava il tema da sviluppare.
Diligentemente poi, per il giorno successivo, dettava alla redazione il suo servizio. Secco, concreto, dettagliato. Senza giri di parole e 'con grande senso pratico quantificava it potere d'acquisto del salario degli operai e coglieva i punti nevralgici ‑ o le zone erogene ‑dell'immaginario dell'uomo comune tutto «Lollo» e Fausto Coppi; denunciava l'idillio sonnacchioso della Camera del governo Scelba e metteva in piazza il conto di provvigioni e tangenti che le aziende nazionali versavano al Pci. Coraggio, intelligenza politica e sorprendente conoscenza dell'indole degli italiani insomma.
Quei testi, merce sommamente deperibile affidata alle onde effimere della radio, ma pur sempre provvista di un marchio d'autore, sono recentemente emersi dagli archivi di Bremer Rundfunk e raccolti nel volume dei Ròmische Reportagen che l'editore tedesco Piper ha lanciato in Germania come <'una riscoperta». In Italia i reportage bachmanniani escono ora da Quodlibet con il titolo "Quel che ho visto e udito a Roma " (pagg. 124 pagine, euro 12,50).
A intitolare l'edizione italiana del giornalistico libriccino della poetessa è però il nome che lei stessa diede a un'opera «inqualificabile e un po' strana; non è un racconto, non saprei darle alcun nome», che la corrispondente scrisse nei suoi anni romani: il testo poetico di una cronista. Testo inqualificabile, ma stupefacente.
Quodlibet, l'intelligente editore di Macerata, ha scelto di mettere in appendice alla raccolta degli articoli il lirico e crudele scrittarello (uscito sulla rivista Akzente nel '55) in cui la reporter ancora descrive Roma, ma con penna d'artista. Tuttavia, la Bachmann che chiude il servizio perla radio e apre in segreto il taccuino della letteratura non cambia perciò il suo sguardo sulla città eterna.
Con l'occhio concreto, preciso, disincantato, allenato dalla professione, guarda il Tevere e vede che «non è bello»: gli arbusti sulle sue rive sono infangati e sugli argini dormono i barboni, «il cielo calcato sulla testa». Guarda San Pietro e vede che «è troppo grande». E «chiesa granne divozzione poca», commenta. Guarda Campo de' fiori e vede il rogo che arseGiordano Bruno accendersi quotidianamente nel fuoco che brucia quel che resta del mercato. Infine guarda il cielo, che trionfante «si insinua nelle strade senza chinarsi sotto i portoni».
E vede arrivare lo scirocco, il vento caldo che sparge la sabbia del deserto, infiacchisce la città, porta disgrazie e induce a pronunciare parole senza amore. Senza enfasi, senza la germanica nostalgia per il Sud, ma con amore tormentato, Ingeborg (che a Roma morirà bruciata nel '73) ripete parole che ribadiscono l'eternità dell'Urbe.
Parole che, proprio come la città, non invecchiano col tempo delle cronache.