«Appena si comincia a leggere le Operette morali si è subito in un aldilà delle parole, al di là di tutto quanto è storico e databile»
Nei mesi passati, mentre preparavo questo discorso, mi è capitato di rileggere i Promessi sposi, e di annotare qualche confronto tra la linea della prosa di Manzoni e quella di Leopardi. E continuavo a ristupirmi della sontuosità retorica della prosa manzoniana, che conserva i giochi di sospensione e gradazione e parallelismi della retorica barocca, a parte aspetti di straordinario mimetismo, dove tutto diventa puntuale come in una scena di teatro. Una prosa camaleontica, che momento per momento si adatta alle situazioni: prosa impostata sulla maschera di stile dell'Anonimo Seicentista, ultima traccia di un'arte retorica poi ripudiata e mandata all'inferno, sostituita dal culto degli umili manzoniani o verghiani, e dal culto della Storia in sostituzione della manzoniana Provvidenza.
Poi pensavo al manzonismo che dilaga nella seconda metà dell'Ottocento e nel Novecento, per arrivare fino a noi con sempre nuovi romanzi storici di successo, anche in versione postmoderna; per cui parrebbe che dalla storia monumentale non si esca più. Morto ogni aldilà della prosa, si è condannati a star sempre di qua con la testa. Tutto storico e databile. È il «trionfo dello stato civile», come ha detto Benedetto Croce a proposito d'un romanzo di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, ma sbagliandosi molto perché quel romanzo è tra i pochi a
non meritarsi tale nomea. Comunque, dopo il completo trionfo dello stato civile, la monomania romanzesca si nutre solo di ansie di identità, ansie di identità dell'individuo che vuol essere bene integrato, facendo lo scrittore. Prosa dell'obbligo, umanista per convenzione, scolastica per norma, con un italiane se da romanzo diventato regola editoriale. Nudi schemi, trame per tenere in piedi una baracca di significati che lusinga il lettore, cioè lo lusinga di capire come va il mondo.
Per questo tornare a leggere la prosa di Leopardi è un bel sollievo. Nello Zibaldone la sintassi non ha niente di classico, perché non è ipotattica né paratattica: le subordinate non sono costruzioni che creano un'attesa prospettica del punto focale nel periodo, dove cade la frase principale; ma il fraseggio non si sviluppa neppure in modo paratattico, per aggiunzioni lineari di un periodo all'altro. Invece è fatto di frasi appese e scandite da virgole, archi di frasi con ritorni all'indietro e ripetizioni avvolgenti, e un andamento aperto che spesso si perde in un «eccetera». Questo è il modo di articolare il fraseggio di uno che pensa scrivendo, cioè non mette in prosa blocchi di pensiero già pronti, ma insegue idee che si sviluppano man mano nel flusso delle parole. Così si produce una mobilità che può espandersi in ogni direzione, inseguendo la sorpresa del dire qualcosa che fino ad allora rimaneva impensato; ed è ciò che chiamerei la linea astratta della prosa leopardiana, che non è mai una linea retta, ma linea erratica e frammentaria. Una lingua di accessi, di raptus, se non delirante di certo propizia ai
bei vaneggiamenti.
Mi sembra che lo stesso valga per le Operette morali, dove comunque trovavo un contrasto di fondo con il rimpianto della prosa manzoniana. La diversità sta proprio nel fatto che la linea leopardiana è astratta ed erratica, senza mete prefissate: mentre quell'altra tende alla costruzione lineare, anche nei suoi accessi di ariosità barocca, magari girovagante ma sempre per ritrovare le linee rette che aveva abbandonato: Renzo a Milano, Agnese sfollata, eccetera. Ma certo, mi dicevo, ma questo è il lavoro del narratore: ritrovare la linea retta che congiunge il punto A al punto B, anche se poi il grande manzoniano Gadda ci ficca di mezzo tutto l'alfabeto, e non si sa mai dove vada a parare.
Questo contrasto sulle linee della prosa mostra una diversa idea del disegno. Il disegno costruttivo del romanziere deve condurre il lettore per strade e per calli che menino al punto prospettico finale, nel quale si suppone ci sia. uno svelamento dei significati storici, sociali o altri, messi in ballo. Grande lusinga per i lettori che ci tengono ai significati romanzeschi, per capire come va il mondo, non diversamente da quando guardano il telegiornale. Ma ancora più a fondo il disegno costruttivo del romanzo ben fatto, editorialmente ben accetto, indica qualcosa che somiglia aIla Provvidenza di Manzoni, o suoi sostituti storici fino al realismo critico. Una forma di totalizzazione, come se ti dicesse: «Guarda, qua, t'ho portato a vedere i fondamenti del mondo». Nel sottinteso che fondamenti ci siano, con parole appoggiate su verità dimostrabili; e insomma che noi sappiamo su cosa riposano le nostre certezze, le nostre virtù, i nostri vizi, i nostri valori.
Per contrasto, all'inizio delle Operette morali c'è una piccola cosmologia che racconta come è nato il mondo, dove ci viene detto che i grandi 'valori del mondo, la Virtù, la Giustizia, la Gloria, la Sapienza, l’Amore, non sono che' pallidi fantasmi, vane illusioni come i sogni;; e che l'ultimo di questi valori venuti sulla terra, la Verità, è anch'esso un'illusione, ma più perversa delle altre, perché reca agli uomini solo infelicità. La linea astratta della prosa leopardiana ci toglie da sotto i piedi la pretesa dei fondamenti, dei valori che hanno fondamenti, perché nel
suo girovagare te li ribalta in superficie come pezzi d'asfalto che non stanno più assieme, rosi e devastati dalle intemperie. Così ci troviamo subito confrontati con uno strano libro che scarta tutti i significati ufficialmente protetti, perché smonta l'enfasi dei valori che dovrebbero dare peso e garanzia alle parole. La sua prima virtù consiste nel togliere peso alle parole, sgonfiando l'astrattezza. dei significati che incombono sulla invenzione letteraria.
Ma soprattutto, appena si comincia a leggere le Operette, si è subito in un aldilà delle parole, al di là di tutto quanto è storico e databile. Il punto di partenza è già collocato dove crolla la storia monumentale, nell'irreparabile assoluto, e allora succede che le parole possono anche sprecarsi con leggerezza. All'opposto d'una prosa romanzesca che deve essere costruttiva, nelle Operette c'è una tendenza dissipatoria, cioè di sfogo e di spreco. Ogni sfogo è uno spreco. Questo non ha niente a che fare con una supposta libertà delle parole; perché, al contrario, qui c'è un pensiero dei limiti, come pensiero dell'infelicità e sapere della morte; ma proprio perché è un pensiero dell'infelicità, tende a sfogarsi in un gioco che è tanto più liberatorio quanto più è futile, inutile, gratuito. Cito il dialogo di Tasso e il suo Genio: «Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; con non altra utilità che di consumarla; che questo è l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e l'unico intento che vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi».