Recensioni / Gusto

C'è una divaricazione nella ragion pratica, una cesura che rende difficile formulare giudizi morali convincenti sulle nuove pratiche biotecnologiche o sulle scelte politico-economiche. La scienza sembra muoversi autonomamente, rincorrendo una verità impersonale, convalidata dal sapere degli esperti e interessata alla riproducibile falsificabilità degli esperimenti. La filosofia, d'altro canto, naufraga sugli scogli di un pluralismo apparentemente insuperabile e con estrema fatica cerca di applicare precetti universali ai casi dilemmatici originali, complessi, sfaccettati, provenienti dall'ambito clinico o sociale. Impresa ardua è quella di costruire un ponte dialogico tra la verità «oggettiva», che si espande nel rigore delle evidenze scientifiche, e la verità di senso, che ci coinvolge come persone integrali, chiedendo la dedizione delle nostre esistenze e coinvolgendo i nostri affetti, nel momento delle decisioni.

Si avverte l'esigenza di recuperare, a monte della scissione tra verità e bontà, un sapere che non condanni le passioni, e un'intelligenza emotiva che eviti la caduta nel soggettivismo. Troviamo spunti in questa direzione, riabilitando categorie estetiche, come quella di gusto. Il gusto non è solo uno dei sensi, ma è la cifra di un tipo di conoscenza opaca, che attinge la materia delle cose, esponendo direttamente la corporeità del fruitore.

Quando si avverte che qualcosa è bello si sperimenta un sapere, di cui si gode, senza poterne offrire le ragioni esaurienti. Quando si compie un'azione buona, ci si sente come autorizzati a consumare un pasto gustoso, perché viene coniugata la coerenza razionale del giudizio con la felicità di fare il proprio dovere. È in gioco, insomma, una qualità seducente della verità, come nella doppia etimologia della parola «filosofia»: amore della sapienza e sapere d'amore. Il soggetto non sa, ma desidera sapere, perché la verità di un gesto degno e felice lo conquista e gli chiede un consenso incondizionato. L'etica torna a scuola dall'estetica, più esattamente pensa la fonte veritativa comune, da cui entrambe le discipline scaturiscono.

Opportuna quindi è la ripubblicazione di una voce dell'Enciclopedia Einaudi dedicata da Agamben appunto alla nozione di gusto. L'A., docente di Filosofia teoretica a Venezia, in questo breve scritto analizza le ragioni per le quali il mondo moderno ha separato l'ambito dei saperi forti (la scienza) da un'altra serie di pratiche, in cui vige piuttosto la lettura di segni (filologia, economia politica, psicoanalisi). Ripensando le pagine di grandi filosofi (Hegel, Kant, Aristotele, Platone, Croce), egli coglie la feconda ambiguità del gusto nell'interferenza tra sapere e piacere. Il gusto infatti è un piacere che non si limita a godere (poiché offre un sapere) ed è un sapere che «non si sa», cioè non conosce da solo (poiché implica l'esperienza del piacere). Il gusto costituisce una tardiva, estrema incarnazione di un antico progetto greco, in cui verità e bellezza comunicano, la scienza gode e il piacere sa (cfr. p. 57).

Di quell'esplorazione unitaria restano i due poli, perennemente da saldare fra loro. Quando la conoscenza sembra stringere la verità, è infatti costretta a torsioni metaforiche, che rimandano a icone di bellezza; quando, per converso, cerchiamo i criteri per definire l'opera riuscita, dobbiamo ricorrere a concetti e categorie, per quanto poveri, approssimativi, privi di forza deduttiva. Platone diceva che la potenza del bene ci sfugge, rifugiandosi nella natura del bello e identificandosi in una mescolanza di scienza e di piacere. Ebbene, la cosa bella, quella cui tutti dovrebbero riconoscere valore (secondo Kant), stimola pensiero e sensibilità, mobilita immaginazione e intelletto, rimanda a un valore generale (che non è né natura né libertà), proprio esibendo l'irripetibile fascino di una finalità interna, che solo una critica (non una dottrina conoscitiva) può portare a parola.