Recensioni / «Che cos'è la filosofia?»: una indagine sul nostro radicamento nella parola

Le esperienze più originali del pensiero del XX secolo, soprattutto quelle di Ludwig Wittgenstein e di Martin Heidegger (che per sua fortuna non si esaurisce nelle sue pessime azioni e idee politiche) hanno collocato il tema del linguaggio al centro della interrogazione filosofica. E con buone ragioni. Il linguaggio, infatti, è un oggetto filosoficamente affascinante e misterioso: per un verso è, in modo ancor più radicale dell'«io penso» cartesiano, qualcosa la cui esistenza ci si impone con una forza irresistibile. Come scriveva Giorgio Agamben in suo denso saggio di diversi anni fa dedicato appunto all'Idea del linguaggio, non appena qualcuno apre bocca l'esistenza del linguaggio è già posta. È posta, aggiungerei, con la forza di ciò che non può essere negato; perché per negarla si dovrebbe far uso del linguaggio.

Ma d'altra parte, quando ragioniamo sul linguaggio, ci imbattiamo in una difficoltà peculiare. Il linguaggio è il medium grazie al quale parliamo di noi e del mondo. Ma che succede quando, come ai filosofi capita spesso, parliamo del linguaggio? Qui le cose diventano assai più complicate, perché il linguaggio si trova a giocare un doppio ruolo: è ciò di cui parliamo, ma è anche lo strumento con il quale ne parliamo. Il linguaggio, insomma, non può essere un oggetto di analisi come tutti gli altri, perché, mentre viene studiato e analizzato, è anche il medium attraverso il quale l'analisi è condotta. Quando parliamo del linguaggio è, in un certo senso, il linguaggio che parla di se stesso. Dunque come l'occhio, che è organo della vista, non può vedere se stesso, così il linguaggio si sottrae a un sapere oggettivante, e ci sfida con la sua natura enigmatica.

Non per nulla, dunque, quando Giorgio Agamben si chiede, nel suo libro più recente, Che cos'è la filosofia? (Quodlibet, pp. 160, € 16,00) la sua indagine la conduce interrogando il linguaggio. Nel libro, che è una sequenza di cinque testi fortemente connessi l'uno all'altro, l'autore passa attraverso una serie di nodi essenziali che emergono quando si provi a riflettere sul linguaggio: dal rapporto tra linguaggio e voce alla questione dell'antropogenesi, dal nesso tra musica e linguaggio a quello che unisce e separa la parola dal segno geometrico o matematico.

Il saggio più corposo, intitolato Sul dicibile e l'idea, riprende e mette in questione, a partire dal trattato aristotelico sull'interpretazione, lo schema fondamentale attraverso il quale la filosofia occidentale ha pensato la significazione, come un processo che implica (almeno) tre termini: il nome che diamo a qualcosa, il concetto mentale che esplicita il significato di questo nome, e l'oggetto extramentale cui facciamo riferimento. Attraverso l'analisi e la messa in discussione di questa classica architettura, Agamben giunge a un ripensamento della Idea platonica come il "dicibile", che va la di là delle interpretazioni convenzionali che ne sono state date nella tradizione.

Ma al di là di tutte le singole analisi, che vanno studiate nella loro complessa tessitura, resta fermo un orientamento di fondo circa la natura dell'indagine filosofica: «noi parliamo sempre all'interno del linguaggio e attraverso il linguaggio e parlando di questo o di quell'argomento, predicando qualcosa di qualcosa, dimentichiamo ogni volta il semplice fatto che ne stiamo parlando». Proprio su questo, invece, dovrebbe insistere la filosofia: «possiamo definire il compito della filosofia scrive Agamben come il tentativo di esporre e di fare esperienza di quel factum che la metafisica e la scienza del linguaggio devono limitarsi a presupporre, di prendere, cioè, coscienza del puro fatto che si parli» dell'«evento di parola» che, enigmaticamente, ci costituisce nella nostra umanità.