Recensioni / La vita segreta del Monumento Continuo

Se il monumento continuo potesse raccontare tutte le vite che ha incrociato, non smetterebbe mai di parlare, o forse preferirebbe raccontarsi attraverso tutte le città possibili mai esistite. Gabriele Mastrigli allora ne costruisce una storia familiare, più che una genealogia, a partire dalle voci dei suoi inventori, intervistati durante la Biennale di Rem Koolhaas che, insieme con Ippolito Pestellini, a Superstudio ha dedicato la riedizione un po’ imbalsamata e funebre della Moglie di Lot alle Corderie dell’Arsenale in MondItalia. Il libro ha un formato agile e l’apparato iconografico permette di seguire il discorso in modo fluido, senza dare per scontata la conoscenza di tutti gli oggetti e le immagini che costellano la vita e la morte di Superstudio. Il saggio introduttivo e le note conclusive di Mastrigli costruiscono una cornice e un contesto, senza distrarre dalle voci del Superstudio. L’architetto pittore Adolfo Natalini, il fotografo sceneggiatore Cristiano Toraldo di Francia, il disegnatore e antropologo visivo Gian Piero Frassinelli diventano protagonisti di un auto-racconto; raccontano la stessa storia e tre storie differenti, intrecciando come in un romanzo di formazione gli anni di studio, quelli delle prime scommesse vinte, restituendo tutte le dissonanze, le passioni, i motivi e le tensioni che nel giro di un decennio hanno dato vita all’avventura progettuale, immaginativa e narrativa del Superstudio, e infine anche i motivi della disgregazione del collettivo durante gli anni settanta e ottanta, schiacciato fra le pressioni del mercato, dissolutrici di ogni idealità, l’esasperazione violenta del discorso politico, che di lì a poco avrebbe smesso ogni linguaggio a favore della lotta armata e poi degli anni di piombo. La generosità e la sincerità appassionata del loro discorso, la corrispondenza e la curiosità di Mastrigli per i suoi interlocutori, permettono al lettore di capire molte delle tensioni ancora irrisolte nella cultura artistica e architettonica italiana, ma anche di ricostruire e rivivere un momento fortunato in cui il talento, una ricerca formale, costruttiva, produttiva, politica, hanno generato un universo immaginario e di cultura materiale, un fantasma che conserva ancora tutta la sua potenza liberatoria e che ha trovato eco in tutto il design italiano degli anni ottanta e  novanta, anche se depotenziato nell’immaginario e definitivamente impoverito dal fatto di aver trovato posto solo nel mercato del collezionismo e del lusso, generando una aporia tutta italiana che ancora persiste fra la ricerca dell’utopia non solo razionalista del design come strumento di liberazione della fantasia e della vita sociale per tutti, e le costrizioni e restrizioni del mercato e della produzione limitata e autoriale. In tutti e tre i racconti torna la presenza fondamentale di alcune figure, come Leonardo Savioli, Leonardo Ricci e Leonardo Benevolo negli anni della formazione universitaria, per nulla accademica e fatta di occasioni di scambio nella Firenze colpita dall’alluvione ma anche inondata di solidarietà negli anni Sessanta e Settanta, e poi la presenza di Ettore Sottsass più avanti con la definitiva affermazione nel mondo professionale, il rapporto di collaborazione-competizione con gli Archizoom e gli scambi con la cultura progettuale del mondo anglosassone, a partire dalla prima mostra Superarchitettura nella galleria Jolly 2 di Pistoia nel dicembre1966, fino al punto culminante nella mostra The New Italian Landscape al MoMA di New York nel 1972, e la partecipazione alla Biennale di Venezia con la curatela di Laura Vinca Masini, che li aveva già incontrati per la Biennale di arti decorative a Palazzo Strozzi quasi dieci anni prima. Ci sono alcuni oggetti mitici con un catalogo di universi materiali e tecniche costruttive che ricorrono in tutte e tre le narrazioni e dicono dell’entusiasmo di quegli anni per la produzione in serie con materiali sintetici, il divano Sofo costruito in fiberglass nelle officine di riparazione per le imbarcazioni e la collaborazione con Poltronova, la lampada Passiflora inventata in una bottega di produzione di insegne commerciali e le superfici infinite quadrettate, le prospettive con i fotomontaggi fatte di paesaggi familiari e stranianti, il luogo quasi mitico della villa di Bellosguardo, l’attitudine all’auto-narrazione e alla trasfigurazione dei protagonisti nella forma di collettivo, la ricerca di un’espressione che fosse contemporaneamente professionale, politica, artistica, spirituale, insomma una tensione all’opera d’arte totale senza privarsi della gioia comune della vita familiare di tutti i giorni, testimoniata dal motto che Superstudio non ha mai tradito, “l’unica vera architettura saranno le nostre vite”. Alcune punte polemiche sono rivelatorie: Frassinelli che ricorda il modo in cui Superstudio abbandona il progetto dei Global Tools, ritenendolo solo un modo per fare due cose, soldi e potere, o il giudizio ricevuto da Manfredo Tafuri che pure li aveva sostenuti agli esordi, stroncandoli a favore della successiva affermazione dello storicismo senza ironia della tendenza; note che rivelano un punto irrisolto, evitato in genere dai critici e dagli studiosi. Adolfo Natalini insiste molto sulla funzione etica della professione più importante della categoria di movimento artistico, e nota come la nascita e l’acclamazione critica del movimento radical sia stato l’inizio della fine per Superstudio, mentre Cristiano Toraldo di Francia descrive con molta lucidità la trasversalità della ricerca teoretica del gruppo, la capacità di tradurre in immagini secche, di cronaca, invenzioni, narrazioni, interpretazioni di teorie scientifiche; racconta per esempio la dissonanza e il disagio rispetto alla pop art provato dagli artisti italiani in quegli anni, per cui il monumento non erano le lattine di Coca Cola, ma San Pietro e il Battistero, e la via trovata da Superstudio di elevare la Natura a monumento, rischiando nell’interpretazione dell’ornamento e della sua tradizione rinascimentale di organizzare il mondo in forma di microcosmo geometrico, in fondo recuperando filologicamente e in modo vitale l’attitudine rinascimentale a trovare un linguaggio alle forme naturali, con una nuova sensibilità. In questo modo Toraldo di Francia, se azzardiamo una interpretazione, rivela una parentela con il neo-realismo di Ricci più che con le sperimentazioni delle megastrutture di Giovanni Michelucci.

L’effetto di queste narrazioni parallele è di costruire una nascita del monumento continuo, ma anche di scrivere la storia di una elisione e di spiegare come nel discorso sull’architettura alcuni temi si siano irrigiditi e siano rimasti proprio così, di sale a guardare indietro un passato mai esistito e immaginario, invece di provare a immaginare il futuro e interpretare il presente. Il contenuto di attualità di queste conversazioni forse è in questa critica fra le righe, non dichiarata e presente per elisione.