Recensioni / Furie, fughe, fantasie: l'arciCelati

Classici contemporanei. Le diverse stagioni della scrittura, i diversi generi affrontati, restituiscono complessivamente un’umanità che l’autore immagina e sente sempre in preda a istinti e pulsioni che dominano. E tanti suoi personaggi non sono che capri espiatori

 

Le foie, le furie, le fughe e le fantasie. Se Gianni Celati deciderà un giorno di scrivere quel poema cavalleresco-autobiografico che si intravede come cifra nel tappeto della sua opera, potrebbe forse cominciare da qui (se la vedrà poi lui con la metrica). Per ora festeggiamo la possibilità di leggere quasi per intero la sua narrativa in un Meridiano Mondadori, Romanzi, cronache e racconti, con la bella curatela, esito di una lunga fedeltà, di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri. Lo si può attraversare dal principio alla fine, scegliere un libro, un racconto o anche solo una pagina aperta a caso, con la certezza di ritrovarci in chiaro o in filigrana il gioco mutevole di queste quattro figure.

Quel che di volta in volta cambia è però il dosaggio. Nel Celati degli anni Settanta (dagli esordi di Comiche alla trilogia composta da Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri e Lunario del Paradiso) prevalgono foie e furie, la smoderatezza di un desiderio onnipresente e scostumato di cui ogni personaggio è marionetta più che attore. Ma i desideri impediti suscitano le furie, tanto più che nel frattempo si è anche esposti alle foie degli altri, da cui il costante impulso prima motorio che mentale ad aprirsi vie di fuga non tanto nella fantasia ma dalla fantasia, fonte dei desideri. Siano maestri matti come in Comiche, preadolescenti vessati come in Guizzardi o in La banda dei sospiri, ventenni spasimanti come Giovanni in Lunario del Paradiso, i personaggi del primo Celati (di forte matrice autobiografica, come mostra la cronologia di Palmieri), cercano di continuo sollievo se non scampo da una spinta pulsionale che è la stessa in loro e in chi li perseguita.

Tutti fissati, tutti persi dietro a una fantasia che li aizza, tutti furiosi perché non si avvera, tutti smaniosi di evadere dal proprio corpo anarchico prima e più ancora che dalle istituzioni che lo disciplinano. La scrittura di Celati ne registra i sussulti con una scrittura che ha il ritmo discontinuo e frenetico del cinema muto: botte da orbi, cadute, figuracce, adescamenti, corse rocambolesche, catture, finte e schivate, il tutto reso in una lingua che mima magistralmente la zoppia di un parlato incapace di ordinare razionalmente il mondo, o i malapropismi e gli smacchi di una parola scritta (soprattutto in Comiche e in Guizzardi) che non si padroneggia, vuol darsi un contegno ma non fa mai centro. Laddove le fantasie fanno ammalare, l'unica fuga possibile è la terapia espulsiva della smorfia e del riso.
Nei libri degli anni Ottanta, però (Narratori delle pianure, Quattro novelle sulle apparenze, Verso la foce) il vento delle foie e delle furie sembra in calo, il tono è più sospeso, lascia spazio al silenzio, iniziativa alla melanconia. Le fantasie non suscitano più corse taurine o slanci di ribellione, si fanno sostanza di una realtà che non ha più senso distinguere dall'apparenza. Le dicerie, le frottole che si raccontavano, disperandosi e sganasciandosi, i personaggi dei primi romanzi, suscitano ora un'accettazione trasognata. La lingua non è più sbeffeggiata e sabotata nella sua velleità paterna di parlare e scrivere bene (ma poveri disgraziati furiosi per la foia sono in primo luogo i padri, in Celati: non tribunali della legge, ed è qui l'apice del ridicolo) e si avvicina al polo materno, che accoglie invece di espellere, consola senza pretendere di spiegare: non a caso il romanzo moderno e la sua razionalizzazione delle trame e delle tecniche narrative sono la bestia nera di Celati saggista.

C'è poi il Celati che viaggia in Paesi reali (Avventure in Africa) o immaginari (Fata Morgana, dove fa il verso ai resoconti etnografici immaginando un popolo, i Gamuna, la cui vita sociale è scandita dai sogni e dalle allucinazioni). E ci sono i racconti dell'ultima stagione, Costumi degli italiani, dove l'autore torna con accenti più pacati alle ambientazioni mattoidi dei suoi primi romanzi e i protagonisti si scoprono far parte di una tribù che si riconosce fantasticando gli uni i desideri degli altri. Sempre meno Celati sembra credere nella fantasia come dono o maledizione individuale, sempre più la vede, al contrario, come prelievo da una mente comune, un intelletto pubblico, avrebbero detto Aristotele via Averroè, Vico e Leopardi (tutti autori evocati da Celati).

Tra la saggistica e la narrativa di Celati c'è un nesso strettissimo, ricorda giustamente Belpoliti nell'Introduzione. Da un suo libro di saggi appena uscito da Quodlibet, Studi d'affezione per amici e altri, si può trarre allora una possibile chiave di lettura. In una conferenza su Ariosto, Angelica che fugge, Celati mette al centro del poema la monomania dei personaggi, che fanno beatamente a meno della psicologia (core business del romanzo moderno, e altra bestia nera di Celati) e sono tutti sospinti come montoni in fregola da moti passionali irrefrenabili: accoppiarsi e dare di cozzo; e non a caso teatro delle loro avventure sono spesso le selve, quelle selve dove Orlando perde il senno e muta in furia la sua foia fantastica di congiungersi con Angelica. Più che persone, scrive Celati, i personaggi di Ariosto sono accordi musicali, fissi, dati, ripetuti, anche se di continuo ripresi e rimodulati dalla trama del poema. La mirabile armonia ariostesca è un concerto di muggiti ferini: corpi matti, spasmi di desiderio, traiettorie rettilinee ma interrotte e sviate da una girandola di incontri casuali, ostacoli imprevisti, capricci del destino.

Ma è evidente che, parlando di Ariosto, Celati parla anche di sé. A conferma offriamo soltanto un indizio, una spia linguistica minima ma significativa. Molto spesso, in lui, l'atto d'amore viene designato come «monta». E non solo nelle prime opere comiche ma anche, sorprendentemente, in testi tanto più rarefatti come Narratori delle pianure o Quattro novelle sulle apparenze. Nulla autorizza i suoi personaggi a pretendersi più razionali e bennati di un branco di montoni.

È qui forse la radice prima, arcaica e non si sa quanto intenzionale della scrittura di Celati: dar voce come in un rito all'animale, ammetterlo a far danni nel recinto delle fantasie, condividere con lui le vanaglorie e i tormenti di una coscienza che non può che perdersi dietro alle fate morgane. Non per nulla buona parte dei suoi personaggi sono capri espiatori. O forse l'uomo è un animale sbagliato, ed è per questo che parla. Non è del tutto benevolo, è a tratti quasi sacrificale il riso di Celati. Ora che il Meridiano ce lo propone nel formato del classico, è lecito guardarlo con timore pari all'ammirazione.