Recensioni / Celati, buffo è vagare fuori dal Mondo

Un grande "outsider delle nostre lettere" che s’è divertito a oltrepassare e rimescolare i generi

 

Non c’è più religione. Non li si riconosce più, questi Meridiani, se arrivano ad ammettere al loro consesso un tipo come Gianni Celati (e chissà se avrà pensato, lui, all’amato Groucho Marx, sui club che accettano soci del genere...). Chi l’avrebbe mai detto, che prima o poi in Parnaso sarebbe finito pure Guizzardi? Il trickster, l’eterno scavezzacollo, l’«outsider delle nostre lettere», come lo definiscono i complici Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri. Ma, come spiega bene Belpoliti nell’introduzione, «nel corso degli ultimi quattro decenni l’idea di "classico" si è molto trasformata, nella letteratura italiana, e a questo cambiamento non è estraneo Celati stesso». Felix culpa del Celati narratore, certo; ma forse soprattutto del Celati saggista: del quale, dopo il mitico Finzioni occidentali (che nel ‘75 spremeva il succo delle tante scorribande nei campus inglesi e americani), gli altri compari di «Compagnia Extra» sono riusciti a pubblicare finalmente (primo,

si spera, d’una bella serie) gli Studi d’affezione sui maestri italiani: dai novellisti medievali all’Ariosto, da Garzoni a Imbriani, da Tozzi a D’Arzo e Delfini sino a un già mitico, a sua volta, Discorso sull’aldilà della prosa sulla «linea astratta della prosa leopardiana» (da Savino a Michelstaedter, da Calvino a Manganelli – «il più grande continuatore dell’operettismo leopardiano» – e oltre).

Non solo con Celati cambia il senso dei classici; a cambiare è il senso della letteratura in quanto tale. Il saggio di Belpoliti s’intitola La letteratura in bilico sull’abisso e sono sicuro che avrà pensato a Italo Calvino (che di Celati, agli esordi di Comiche, è stato mentore decisivo) sul finire degli anni Cinquanta, quando diceva che la generazione di Thomas Mann aveva guardato alla modernità «sporgendosi da un’estrema ringhiera dell’Ottocento», mentre la sua guardava il mondo «precipitando dalla tromba delle scale». Ecco, Celati è il primo che il mondo abbia preso a percorrerlo dopo quel traumatico atterraggio: come quando – dopo una caduta, appunto – ti rialzi, ti scrolli dalla testa le vertigini, e ti rimetti in cammino. La metafora della scrittura come «terapia» ricorre spesso nelle riflessioni di Celati; fuor di metafora, e per usare una parola che di sicuro gli fa orrore (ma che un paio di volte gli scappa, scrivendo agli einaudiani: come si legge nella preziosa Cronologia approntata da Nunzia Palmieri per il Meridiano, corredato altresì dall’esemplare bibliografia di Anna Stefi), è lui il primo scrittore consapevolmente postmoderno della nostra letteratura (e del postmodernismo scrive nel ‘73 un manifesto, Il racconto di superficie). Come dice Belpoliti, è simile al gesto del barone di Münchhausen che vorrebbe tirarsi fuori dalla palude prendendo se stesso per i capelli – quello, postmoderno appunto, di chi usando la letteratura «aspira a qualcosa che sta al di là della letteratura, o forse prima della letteratura». Che in Celati si manifesta, per esempio (come già in Beckett, e poi in Thomas Bernhard), nell’oltrepassamento dei generi canonici. Non romanzi scrive, dunque, ma «lunghi racconti comici» (così definisce, lui, quelli di Parlamenti buffi) e poi non racconti bensì «novelle»: al di là della stessa testualità (come nelle arti visive post Duchamp) in direzione del comportamento, cioè nella dimensione «etica» (così Belpoliti, che indica la lezione di Wittgenstein) di chi vuol «scrivere libri che riguardano la vita pratica».

Questo tanto nella stagione iper-cinetica e gesticolante anni Settanta di Comiche e dei Parlamenti buffi (Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri, Lunario del paradiso), quando si scatena la «bagarre» e il corpo è un misirizzi tarantolato dalle scalmane, che in quella iper-rallentata e contemplativa anni Ottanta: quando a Calvino subentra, quale mentore, Luigi Ghirri e la malinconia del soggetto, dilagando, tinge di sé il mondo. Protagonista diventa, nelle miracolose scritture di quel tempo (da Verso la foce alle Quattro novelle sulle apparenze, colla magnifica propaggine tarda di Cinema naturale), il Grande Fuori del Mondo: e il narratore si fa geografo e insieme viaggiatore.

Introducendo a un classico amatissimo, La Certosa di Parma, ricorda Celati la leggendaria rapidità d’esecuzione di Stendhal che era, in effetti, abbandono all’improvvisazione. Lo stesso aveva fatto lui colle novelle brevi di Narratori delle pianure: «scrivevo senza chiedermi come doveva andare a finire una storia, e se in mezz’ora non veniva bene la buttavo via». Ecco, rileggendo queste duemila pagine di Celati lo si sente soffiare ancora, quel vento volatore: il respiro del Grande Fuori che ci scompiglia i capelli, ci illumina gli occhi, ci prende e ci porta via. Poi il libro si chiude, il vento si posa, e ancora una volta ci chiediamo «se è proprio questa la vita. Oppure è tutto un errore, solo dei lampi, brividi, non si sa».