Recensioni / Studi d'affezione per amici e altri

Gli otto scritti che compongono Studi d’affezione per amici e altri, volume pubblicato da Quodlibet nel 2016, costituiscono un’imperdibile rassegna di vividissimi pensieri e intuizioni di Gianni Celati su autori e opere della letteratura italiana.

Ciò che accomuna questi testi di varia natura (si tratta infatti di lezioni, interventi, prefazioni, ecc.) è lo sguardo libero e innamorato di Celati, che ascolta i libri scelti con grandissima attenzione e restituisce l’esperienza della propria lettura senza mai esibire un esercizio di conoscenza, senza mai cercare privilegi interpretativi né l’oggettività di significati nelle opere che va indagando; in altri termini, Celati ascolta la vita dei testi tesa verso l’indicibile e scrive lettere d’amore ai libri cari, splendide invenzioni piene di verità.

Uno dei motivi ricorrenti di questa raccolta è un guardare al mondo e alla letteratura intesi come dimensione di relazione, movimento, interruzione, silenzio, più che come luogo di fatti, di sequenze meccaniche di azioni e accadimenti, di realtà. In estrema sintesi, si potrebbe dire che l’attenzione è posta sull’aperto, sul caso, sul possibile, sul limite, contro ogni forma di univocità, di rigidità, di irreale certezza.

Il libro di Celati si presenta sostanzialmente come un’avventura, un cammino errante nella letteratura e nella scrittura.

Il volume si apre con Lo spirito della novella, un discorso dedicato alla storia di questa particolare forma di narrazione dal Novellino duecentesco al Cunto de li cunti di Giambattista Basile, nel corso del quale Celati si sofferma in particolar modo sul Decamerone di Giovanni Boccaccio.

Una delle questioni principali di questo capitolo riguarda le distinzioni tra il racconto moderno e la novella. Presa in una vaghezza immaginativa e in un tempo indefinito, la novella ha tra i suoi movimenti precipui la meraviglia. Inoltre essa ha una natura fondamentalmente diversa da quella del racconto:

 

“[…] per noi ogni racconto corrisponde necessariamente a un testo unico, chiuso entro i limiti dello spazio scritto. La novella invece si dichiara sempre come racconto d’un racconto, udito dal narratore che lo ripete per noi. Questa è la differenza della novella rispetto ai racconti moderni: nella novella non esiste l’idea del racconto originale, il racconto d’autore come lo intendiamo ora, bensì quella d’una ripetizione con continue varianti. […] i racconti moderni sono concepiti come parte di una testualità fissa, in cui parrebbe che la lingua si fosse già tutta oggettivata e purificata nella scrittura. Il risultato è un narrare chiuso, come immunizzato e sottratto all’incontrollabile circolazione delle parole”, pp. 19-20.

 

All’insegna di un confronto tra antico e moderno è anche Angelica che fugge, conferenza sull’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. All’interno di una dimensione tutta fatta di parole, di inganni di immagini e di figure che si muovono nella variazione incessante e nella mutevolezza, il meraviglioso non ha fine, mentre gli eroi girano a vuoto come il divenire e la fortuna.

 

“Leggendo il poema ariostesco, l’impressione più sicura è che nel suo spazio si possa muoversi solo così, cioè vagando di pensiero in pensiero senza badare a dove si va, o perdendo la strada del tutto. Ed è perché questo spazio, con tutte le sue linee divaganti, deviazioni e discontinuità, porta già in sé il senso dell’errare in una vaga lontananza”, p. 74.

 

Ecco che il meraviglioso come dimensione inafferrabile e inenarrabile che crea sconcerto è presente anche in La piazza universale di tutti i misteri, lo scritto dedicato a La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo di Tomaso Garzoni. Celati mostra come l’immenso catalogo di Garzoni non sia che la creazione di un universo parallelo fatto di parole, senza intenzioni né direzione, in un tripudio di gratuità e divagazioni che si fanno mascherata e messa in scena, mentre ricordano il potere magico dell’affabulare. L’uomo vive, cioè, “in forma di parole”:

 

“[…] l’accumulazione di parole – il fatto che le parole siano usate come puri materiali da ammassare sulla pagina, per cui le pagine diventano magazzini di parole, senza un’idea di tipo narrativo […] o trattatistico. […] C’è qui un’idea quasi nominalistica della lingua, perché in accumulazioni così fatte, ogni nome riguarda una cosa singola in particolare, non un ordine generale di cose”, p. 117.

 

Segue la prefazione dal titolo Imbriani, il favolare, l’ingenuità e lo scarabocchio, che dice la purezza del movimento, del fraseggio, del canto, della linea, del divertimento contro ogni desiderio di stabilizzazione, di significazione, di categorizzazione:

 

“[…] la nostra scrittura alfabetica elimina: l’instabile lavoro degli accenti tonici che decidono l’impulso ritmico e l’articolazione delle sillabe che può diventare nenia o ecolalia, e infine il gesto eccessivo dello scarabocchio che può diventare segno decorativo, arzigogolo, segno runico, segno fatato, liquidazione a sorpresa di tutta la coscienza raziocinante”, pp. 142-143; “Ciò che conta è che la lingua vada in una terra incognita”, p. 146.

 

Il favoloso e il meraviglioso, in altri termini, ci mettono in guardia dalla rappresentazione del mondo:

 

“La rappresentazione riposa sul principio che una forma rappresentativa rispecchi la cosa rappresentata, e in qualche modo la afferri o la catturi come in una fotografia”, Discorso sull’aldilà della prosa, p. 264.

 

In Antonio Delfini ad alta voce, introduzione a un volume dello scrittore modenese, Celati scrive ancora in merito alla distanza tra narrazione e ciò che viene chiamato reale:

 

“Un racconto è prima di tutto una promessa d’emozione, con la proiezione d’un ordine del possibile nelle sue parole. Non sarà mai la copia di un evento reale, ma piuttosto una proliferazione del linguaggio su se stesso”, p. 226.

 

Secondo questa prospettiva, ci ricorda Celati, lo stesso scrittore faticherà a riconoscersi nelle proprie parole: “Però, solo in base a quel decentramento, io riesco a capire che la lingua non è un puro strumento al servizio delle mie intenzioni, ma una melodia che procede per conto suo verso l’eventualità dell’impensato”, p. 227.

Contro le pretese del realismo di poter definire, afferrare e conoscere la realtà; contro l’ansia dell’attualità e di un racconto costituito di accadimenti e fatti (in fondo i “fatti sono la messa in posa di certi eventi per distinguerli da altri, secondo una graduatoria di valori”, D’Arzo, lo stile di chi è straniero ovunque, p. 195), si staglia l’incompiuto, l’irrisolto, il frammentario, l’incertezza e l’indeterminatezza delle percezioni che si ha del mondo.

E in Tozzi, vedere con gli occhi chiusi, attraverso un’analisi delle opere dello scrittore senese (in particolare del romanzo Con gli occhi chiusi), Celati ricorda la necessità dello stupore davanti al mondo, uno stupore che è libertà dai valori e dalle categorie di bene e male. Nella dispersione in particolari privi di centro e nel girare senza meta della vicenda del romanzo, Celati riconosce “una continua voglia di alzare gli occhi verso il punto più lontano, e perdersi con lo sguardo nell’indeterminatezza dell’aperto”, p. 182.