Recensioni / Harold Bloom e Gianni Celati, la critica letteraria ai tempi del Like

È verissimo che la distanza tra lettori e critici si è assottigliata. I primi, grazie ai social e alle comunità virtuali della rete, possono condividere la loro passione anche attraverso giudizi, mentre i secondi spesso sembrano essere diventati solo gli estensori passivi di quel che vogliono promuovere gli uffici stampa delle case editrici. Pare proprio che oggi non ci sia più tempo né spazio per un’analisi, conta solo la lode o la stroncatura. Se si vuole le terze pagine dei giornali si sono “internettizzate”, e i critici si sono messi a servizio degli acquirenti rilasciando stringati feed-back; allo stesso modo semplici lettori stanno colonizzando le quarte di copertina dei libri con i loro giudizi prelevati direttamente da internet.

Tuttavia leggendo uno di seguito all’altro Il canone americano (Rizzoli, pag. 602, 28,00 €) di Harold Bloom e Studi d’affezione per amici e altri (Quodlibet, pag. 273, 16,50 €) di Gianni Celati si ha la netta impressione che la critica non solo serva ancora a qualcosa, ma che abbia anche una sua rispettabile identità e precisa autonomia. Pur nella diversità degli approcci già rinvenibile nei rispettivi titoli – Bloom è accademico e talvolta perfino ingessato, Celati più distensivo e casual – il risultato a cui si perviene durante la lettura è il medesimo: la grande critica si poggia su nozioni pencolanti che cedono il passo alla personalità – spesso ai personalismi – del critico. È sempre stato così. Pensate ai critici più conosciuti di sempre, Croce, Bachtin, Lukács, Benjamin, Adorno, Barthes, Foucault: tutti, nessuno escluso, hanno sempre anteposto le loro intuizioni (le loro idiosincrasie) alle teorie.

Chi grida alla morte della critica sbaglia sempre (da ultimo, si potrebbero citare qui da noi almeno Lavagetto, Berardinelli, Fofi). La critica non può morire semplicemente perché non è mai davvero nata. La critica, soprattutto quando è interessante, rappresenterà sempre un vicolo cieco o, se si preferisce, sarà sempre sul punto di nascere. E’ sempre stato questo il suo limite e la sua forza: di essere inscindibile dal critico che la compie. Non ha gli strumenti per darsi come sistema onnicomprensivo, e si basa giocoforza sulle intuizioni (anche di metodo, anche di strumenti) di alcune intelligenze e sensibilità fuori dal comune (che fanno scuola, tutt’al più, ma non lasciano eredi).

Bloom e Celati nei loro saggi, preliminarmente, non fanno altro che snocciolare dei nomi. Bloom si concentra sugli autori classici, strutturando il libro su quelle coppie di scrittori che secondo lui costituiscono il canone americano: ad esempio Walt Whitman e Herman Melville, o Mark Twain e Robert Frost. Celati non ha la minima intenzione di stabilire una regola, e si sofferma invece su alcuni nomi di lunatici italiani: Tomaso Garzoni, Antonio Delfini, Silvio D’Arzo, Giorgio Manganelli. E in fondo alla critica si dovrebbe richiedere proprio questo: che facesse dei nomi, ristabilendo le giuste proporzioni tra qualità (letteratura) e quantità (mercato). Gli elenchi saranno sempre parziali, certo. Quello che conta non è l’esaustività, ma la capacità di costruire un percorso d’indagine attraverso una serie di opere e autori.