Due protagonisti del design si interrogano su un rapporto da sempre centrale. "Ora le nuove tecnologie lo trasformano e cambia anche l’idea di creatività"
Michele De Lucchi, architetto, classe 1951, è autore di alcuni pezzi che hanno fatto la storia del design come la lampada Tolomeo per Artemide e nel 2015 ha progettato per Expo il Padiglione Zero. Carlo Ratti, classe 1971, una formazione tra Torino, Parigi e Cambridge, insegna al Mit di Boston, dove dirige il Senseable City Lab. Con il suo studio indaga le potenzialità delle tecnologie digitali applicate all’architettura.
Alla Design Week 2016 De Lucchi festeggia 25 anni di Produzione Privata, il suo laboratorio sperimentale creato per realizzare oggetti liberi da committenza; Ratti espone il progetto Lift-Bit, sviluppato con il supporto di Vitra e del Salone del Mobile per la mostra Stanze. Altre filosofie dell’abitare, curata da Beppe Finessi alla Triennale. Negli ultimi mesi sia De Lucchi, con il suo libro I miei orribili e meravigliosi clienti (Quodlibet), sia Ratti si sono interrogati sul rapporto tra architetto e cliente: da un’unica committenza a una committenza collettiva, a nessuna committenza. Li abbiamo fatti dialogare su questi temi.
CR. Ho letto il tuo libro Michele: mi sembra che quello che emerge sia un’idea di cliente incentrata sul mutamento che io, oggi, riconduco anche alle potenzialità della rete. Il cliente può diventare qualcosa di distribuito, può scomparire e lasciare spazio all’immaginazione. Ero studente quando, durante una visita ai progetti di Le Corbusier, Denys Lasdun citò uno dei propri scritti: «Il nostro compito è quello di dare al cliente non quello che vuole o voleva, ma quello che non aveva mai sognato». Penso che oggi grazie a Internet possiamo tornare al sogno per poi cercare qualcuno che sogni con noi.
MDL. È vero che questa nuova fase del mondo, questa disponibilità di una rete che connette interessi e sogni, ha tante possibilità. Non dobbiamo però dimenticare i clienti che possiamo avere di fronte, ognuno con un ruolo molto chiaro: quello che ti affida l’incarico, quello che vivrà nel tuo edificio, quello che ci passa davanti tutti i giorni. Per non parlare della famosa, difficilissima opinione pubblica.
CR. Non nego che i progetti più interessanti si basino proprio su un dialogo con la committenza. Se poi i clienti non sono uno, ma molteplici, come i gruppi che sostengono una campagna di crowdfunding, potremo anche lavorare open source come un collettivo. Il ruolo di Internet può essere liberatorio: potremmo pensare ai progetti realizzati in rete come a una parentesi sabbatica rispetto alla «dittatura del cliente».
MDL. Certo, il crowdfunding è una grandissima opportunità, ma alla base bisogna trovare mentalità imprenditoriale. Un futuro senza imprenditorialità si fonda sulla buona volontà, ma non alimenta il processo di innovazione di cui il mondo ha bisogno.
CR. Rispetto al crowfunding un altro tema è quello della scala. Nel campo del prodotto è più facile avere un’idea, metterla in rete e ottenere un numero di preordini sufficiente per iniziare la produzione. Nell’architettura è più complesso, non ci sono oggetti che puoi spedire. Tuttavia, anche in questo campo stanno nascendo delle possibilità stimolanti: per esempio, un gruppo di cittadini si organizza e può diventare un «developer» al posto dell’immobiliare del passato, che compra un pezzo di città e lo sviluppa secondo i propri interessi.
MDL. Potrebbe anche accadere il processo inverso. Ovvero, l’architetto che elabora delle soluzioni per ambiti sociali particolarmente nuovi che non trovano una pratica funzionalità negli edifici convenzionali e cerca successivamente una comunità che si riconosca nella sua proposta.
CR. Mettere l’idea prima del cliente, che può arrivare in un secondo momento, è una possibilità in cui credo molto. A questo proposito mi viene in mente un aneddoto che riguarda un grande architetto del passato, Luis Barragan. Negli Anni 40 del secolo scorso, dopo un inizio di carriera fatto di compromessi, il progettista messicano dichiarò: «Ne ho abbastanza dei miei clienti. D’ora in poi lavorerò per un solo cliente: me stesso». Da quel momento in poi costruì pochi edifici, così sensazionali che vinse il Pritzker Prize e cambiò la storia dell’architettura del Novecento. Ecco: penso che Barragan, se fosse vivo oggi, sarebbe favorevolmente incuriosito da piattaforme come Kickstarter o Indiegogo.
MDL. Molto bello questo slogan, Carlo: mettere l’idea della vita davanti al progetto. Prendere dai bisogni e dalle ambizioni di tutti il senso di un progetto e renderlo immediatamente utilizzabile. In questo modo l’architetto indaga una possibilità meno onnipotente di intendere il mondo non come un mondo dove piazzare le proprie cose, ma dove stimolare la creatività delle persone.
CR. Esatto! Lavorare senza clienti, per me, non è l’idea prometeica e antica dell’architetto che prende decisioni da solo, un po’ come nel film The Fountainhead con Gary Cooper, ispirato alla vita di Frank Lloyd Wright. Penso che la visione di oggi sia quella di avanzare delle proposte che vengono discusse, continuano a evolvere in rete con il feedback di tutti. È l’idea di esplorare mondi e condividerli, non di imporre una soluzione definitiva.