Recensioni / L'uomo insegue l'utopia, il cane ci si siede sopra

Per Friedman il miglior governo possibile è quello estratto a sorte. E il pensatore Hansen gli dà ragione

Nel 1940 il signor Aaron Rosenblum , nato a Danzica e cresciuto a Birmingham , voleva riportare l’umanità al 1580. A Hitler (o a Churchill) preferiva quindi il regno di Elisabetta e il suo libro, Back to Happiness, definiva chiaramente tutto quello che era necessario fare per retrodatare il mondo. Innanzitutto, come racconta J. Rodolfo Wilcock ne La sinagoga degli iconoclasti (Adelphi),
andavano aboliti: il carbone, le macchine, la luce elettrica, il granoturco, il cinematografo, il petrolio, le strade asfaltate, i giornali, gli Stati Uniti, gli aerei, il voto, i pappagalli, le motociclette, i Diritti dell’uomo, i pomodori, i piroscafi, Newton e la gravitazione, Milton e Dickens, i tacchini, le ferrovie, i musei, il guano, il Belgio, la dinamite, il weekend, il Seicento, l’Ottocento e il Novecento, l’istruzione obbligatoria, i ponti di ferro, il tram, l’artiglieria leggera,  i disinfettanti, il caffè. Poi, andava ripristinata tutta una serie di cose che vi risparmiamo ma che nel suo libro occupano una lista di quattro capitoli interi (il manicomio per i debitori, la schiavitù per i negri, i cavalieri di Malta a Malta, la peste, il vaiolo e il tifo, l’allevamento di cigni nel Tamigi e di falchi nei castelli, eccetera). Le sue intenzioni erano buone, ma grazie al cielo ebbe pochissimi seguaci (che si sarebbero dovuti riunire prima in una comunità nella Cornovaglia - la Sixteenth Century Society - poi estendersi in tutto il pianeta). Si capisce, Rosenblum , come utopista, non aveva nulla da invidiare a un Campanella, a un Platone, a un Marx, a un Rabelais.
Un po’ come un altro tizio, tale Armando Aprile che, il primo dicembre 1968 ,affisse a Roma un annuncio per realizzare un altro grande progetto utopico (e paranoico): prosciugare tutto il mare perché qualcuno avrebbe potuto mettere in acqua dei giganteschi frullatori e sterminare l’umanità intera. Un mondo di pazzi, ma anche di grandi innovatori. Ora, chi fosse interessato alle utopie e, soprattutto, alle loro condizioni di possibilità, non si lasci scappare un libro pubblicato qualche mese fa da Quodlibet e tradotto da Susanna Spero: Yona Friedman, Utopie Realizzabili. Friedman (ebreo ungherese diventato parigino) è uno dei più grandi architetti viventi,un pensatore originalissim o e patafisico e un carpentiere che lavorò in Israele per contribuire alla costruzione dei primi insediamenti colonici. Friedman,  poi, è l’unico architetto al mondo in grado di rilasciare una dichiarazione così: «Il miglior modo di fare architettura è che gli abitanti trovino loro stessi le soluzioni» e di andare da un amico biologo per chiedergli (l’esempio si trova a pagina 69 di Utopie realizzabili): «Come mai i cani stanno sempre seduti comodi?» (c’è da ridere a immaginarsi il volto compassato dell’amico che un’ora prima, magari, aveva avuto a che fare con mitocondri, ribosomi e cromatina). Ma lasciamo perdere, perché Friedman non è soltanto un pensatore eccentrico e nel suo libro si trovano argomenti seri e decisivi. Come quello secondo cui le utopie universalistiche (quelle che dovrebbero coinvolgere l’intera umanità) sono impossibili (e dunque pericolosissime se si cerca di realizzarle) per la ragione molto semplice (e proprio per questo trascurata) che l’uomo ha una capacità ridotta di comunicare e di assimilare informazioni («Vivo a Parigi, città che conta attualmente dieci milioni di abitanti; lo so dalle statistiche, perché non ho mai incontrato questi dieci milioni di parigini» scrive Friedman).
Esiste quindi una soglia oltre la quale l’utopia diventa il suo contrario, la distopia, e solo un numero limitato di mem bri può partecipare con successo alla sua realizzazione. L’idea è quindi più quella del villaggio che dello Stato mondiale. Anche perché, se si dovesse tenere conto del pianeta nella sua interezza, dice Friedman, tutto sarebbe da rifare: le zone calde del mondo (Sahara) dovrebbero infatti diventare fortemente abitate («L’abitato richiede una superficie molto più ridotta che nelle zone temperate: si può vivere all’esterno, per la strada, nei cortili, sotto gli alberi») e dedicate interamente all’industria (che sfrutterebbe l’energia solare), mentre l’occidente temperato dovrebbe diventare contadino e spopolato per sfruttare al meglio,  senza abitazioni e industrie, il terreno fertile e arabile di cui dispone. Molti argomenti di Friedman trovano poi in alcuni filosofi politici contemporanei (Mogens Herman Hansen, Robert Dahl, James Fishkin) una corrispondenza sorprendente. Nel numero di Reset di gennaio e febbraio 2004, M. H. Hansen, fondatore del Copenhagen Polis Centre, dice ad esempio: «Non è possibile che un dibattito politico possa andare avanti a lungo fra cinque milioni di persone; non si possono scambiare informazioni tra cinque milioni di persone; né cinque milioni di persone si possono incontrare» recuperando così, forse inconsapevolmente, la nozione di Friedman secondo cui la classe dirigente politica rischia (diventando oligarchica) di non essere più rappresentativa della popolazione per l’impossibilità di comunicare a milioni di cittadini tutte le decisioni e i provvedimenti da adottare. Per Friedman (come per Hansen, Dahl e Fishkin) occorre quindi recuperare una pratica già utilizzata dagli ateniesi antichi, dagli gnostici e da alcune città stato medioevali: quella del sorteggio (anche parziale), all’interno del corpo elettorale,dei nuovi membri della classe politica. Questo contribuirebbe a una migliore partecipazione democratica e a una maggiore diffusione del sapere politico anche perché, scrive Friedman: «Se qualunque cittadino è in grado di giudicare come giurato, di eleggere come elettore, di fare la guerra come soldato, si può presumere che sia in grado di istruirsi in materia di legislazione».