Recensioni / Che cos'è la giustizia? Lezioni americane

Prosegue l’opera di scavo e traduzione delle opere inedite e poco conosciute di Hans Kelsen da parte di Lorenzo Passerini Glazel, in collaborazione con Paolo di Lucia. Dopo l’edizione di Religione secolare (Raffaello Cortina, Milano 2014), ora è la volta, con altri inediti sulla teoria pura del diritto, delle sue ultime lezioni accademiche a Berkeley, tra il 1952 e il 1962, raccolte per Quodlibet sotto il titolo Che cos 'è la giustizia? Lezioni americane.

Hans Kelsen era nato a Praga nel 1881, docente a Vienna fino alle persecuzioni naziste, si rifugiò negli Stati Uniti nel 1940 dove concluse la sua carriera accademica e morì nel 1973. Forse il maggiore filosofo del diritto del secolo scorso, Kelsen è stato il padre del giuspositivismo, la corrente di pensiero che – contro l’identificazione giusnaturalistica della validità del diritto con la giustizia, e contro il realismo che identifica la validità del diritto con la sua efficacia – ha teorizzato la separazione netta tra validità delle norme giuridiche, e quindi del loro ordinamento in un sistema di leggi, e questione della giustizia, sia essa sociale o individuale. Una divisione tra legge e giustizia che ha al suo fondo un serio problema logico: l’impossibilità di derivare giudizi di valore da questioni di fatto, e l’illegittimità di confondere il dover essere, su cui verte il diritto, con l’essere, su cui verte la politica.

Proprio per la nettezza di questa presa di posizione logicamente coerente – un ordinamento giuridico, lo Stato, è un insieme formale di norme tra loro connesse da un criterio di deduzione a partire dalla norma fondamentale che è la Costituzione – il giuspostivismo ha suscitato innumerevoli discussioni. Innanzi tutto, la definizione della democrazia come insieme di procedure che salvaguardino libertà di voto, pluralismo, regola della maggioranza. Definizione che presuppone il relativismo dei valori, come sinonimo di pluralismo. A questa definizione procedurale di democrazia è stata rivolta per lo più la seguente obiezione: cosa vieta che la coerenza formale di un ordinamento statuale sia stravolta da una politica che, pur rispettandola, la trasforma in qualcosa di totalitario? Il caso di Hitler, andato al potere legalmente con le elezioni nel 1933, sarebbe la prova dell’insufficienza del formalismo giuridico nel giustificare la democrazia. D’altro canto, l’affermarsi delle democrazie costituzionali nel secondo dopoguerra può essere visto come il successo della dottrina di Kelsen come filosofia del costituzionalismo. Di là da questa disputa, Kelsen non ha cessato di interrogarsi sul rapporto tra democrazia, che per esser tale deve esser formale, e giustizia, e la testimonianza più drammatica è nelle pagine qui tradotte. Al punto che Kelsen scrive: «Dietro la domanda di Pilato, “che cos’è la verità?” sorge, dal sangue di Cristo, un’altra più importante domanda, l’estrema domanda dell’umanità: “che cos’è la giustizia?”». Sta in interrogativi come questi la classicità della riflessione di Kelsen sulla democrazia. Per quante risposte si possano dare alla domanda sulla giustizia resta il duro ammonimento che la democrazia è formale o non è. Certo, essa può assumere assetti sociali diversi, ma questo non dipende dall’essenza formale della democrazia: dipende dal conflitto dei valori sulla scena politica e dal compromesso raggiunto.

Quello cui assistiamo oggi è il confermarsi, talvolta drammatico, di un tri lemma scoperto da Kelsen. Trilemma come serie di difficoltà conseguenti da tre affermazioni: 1. la democrazia è formale, e implica il relativismo come garanzia di pluralismo; 2. il relativismo non può escludere a priori l'affermarsi di valori contrari alla democrazia, pena il non essere relativismo; 3. perché la democrazia resti tale, dovrebbe presupporre che la maggioranza scelga il valore della libertà nel pluralismo. Ma appunto è un presupposto, che nasce dalla contingenza di una scelta di valore nell’ambito del confronto politico. Scelta che non può essere imposta, se non a scapito della stessa libertà politica. Del resto, con disincanto, Kelsen, al cospetto di questo trilemma, affermava: «Non è la risposta che conta, è la domanda. Ciò che la scienza ci insegna non è forse altro che questo: porre domande». Domande rispetto alle quali la politica, ovvero lo scontro di interessi e valori, può al più metter capo a compromessi. La qualità di una democrazia dipende dalla qualità di questi compromessi. E a ben vedere, questi problemi kelseniani sono gli stessi che, sotto altro nome, troviamo in altri pensatori, quali Isaiah Berlin – con la sua riflessione sull’inevitabile pluralismo dei valori e la virtù del compromesso – ed Ernst-Wolfgang Böckenförde, quando afferma che lo Stato liberal-costituzionale presuppone una scelta etica per la libertà che di per sé non può garantire. Problemi che sono i rompicapo della nostra vita politica.