Recensioni / Spazi d'artificio. Dialoghi sulla città temporanea

Bruno Zevi nel suo ultimo scritto (non pubblicato in quanto contenuto come appunto al margine del suo intervento al Congresso In/arch del 2000) descrive la ”profezia di uno spazio determinato dall’evento, svincolato dalla scatola, immateriale, capace di proiettarsi nel nuovo millennio in chiave politica, sociale, filosofica, artistica, architettonica e umana. Uno spazio non più contenuto in un involucro senza spessore ma libero da ogni involucro. E’ un sogno e un obiettivo”.

Appare evidente che Zevi con questo auspicio aspirava a un linguaggio ‘grado zero’, inteso come concretizzazione delle teorie di Albert Einstein e di Roland Barthes sullo spazio-tempo, e delineava un approccio sistemico che consiste nel far prevalere l’aleatorietà del processo e l’approccio multidisciplinare. Per formulare una nuova idea di spazio pubblico e architettonico il critico romano immaginava di far interagire fondamenti teorici e valenza effimera, linguaggio specialistico e diverse modalità artistico-espressive.

La strategia politico-culturale di Bruno Zevi appare, programmaticamente, molto vicina a quanto analizzato nel convegno internazionale di studi svoltosi nel maggio 2014 presso la Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma. I contributi di quell’incontro sono ora raccolti nel libro Spazi d’artificio. Dialoghi sulla città temporanea, Quodlibet DIAP Print editore, curatori Luca Reale, Federica Fava, Juan López Cano.

I vari contributi, interessanti per temi e orientamenti disciplinari, in molti casi affrontano il tema nodale dello spazio-tempo, altri le infinite declinazioni dell’intervento leggero, di carattere effimero, coinvolgente in termini sociali e interagente con la popolazione; giocoso e allegro come i fuochi d’artificio (in epoca barocca ‘fochi d’allegrezza’), problematico come gli happenings.

Tradizionalmente – si legge nell’introduzione – e certamente con grande evidenza dal moderno, la nozione di tempo è comunque rimasta sullo sfondo e oggi sembra essere in grado di riacquisire terreno: la città appare impossibilitata a perseguire la stabilità e la permanenza, tanto meno la monumentalità. La costruzione, intesa come azione, ma anche evento, uso, smontaggio e riciclo, sembra oggi il tema centrale rispetto alla durata”.

Tra gli esempi citati e illustrati troviamo interventi temporanei, azioni teatrali, feste popolari del pasato e contemporanee, allestimenti sperimentali, spazi d’esperienza performativa (Carpenzano), riuso temporaneo di luoghi urbani. Le soluzioni di città ‘temporanea’ prospettate presentano una percezione mutevole, che riannodano le fila tra l’area del logos e quello del topos, tra regole e deroghe, tra spazio e tempo, storia e mito. Sono operazioni urbane finalizzate a nuove forme di comunicazione e di rappresentazione della società, che superano la contrapposizione tra individuale e collettivo, tra processi di affabulazione e forma univoca della ragione, tra flessibilità del processo e contaminazione di approcci.

La ricerca espressiva contemporanea spazia tra due opposti: l’auto-significanza dell’opera (in quanto contiene in se la propria giustificazione) e l’estrema riduzione iconica a pura struttura concettuale. Nell’architettura ‘a tempo determinato’, che per gli autori è complementare e non alternativa a quella duratura, le contrapposizioni si riassorbono in uno statuto unitario. L’intervento temporaneo individua spazi in cui si riflettono gli eventi, diventa struttura della e per la comunicazione, momento in cui rintracciare un sistema di relazioni, un territorio d’incontro in cui si esaltano i valori del contrastante, dell’instabile, dell’eterogeneo. Una metodologia aperta che, non solo metaforicamente, accetta l’accostamento stridente, anche incongruo, di pezzi diversi, di altre strutture semantiche. L’opera ha un carattere spontaneo, in cui si esalta l’effetto ‘non finito’, il working-progress instabile e sempre suscettibile di nuove metamorfosi.

Effimero non è un’invenzione contemporanea ma una pratica tramandata che da sempre ha svolto, su un terreno di sperimentazione, un compito di anticipazione, non opponendosi all’architettura permanente, ma piuttosto alimentandola nel rinnovarla (Metta). Lo spazio d’artificio oltre a porsi come strumento di lettura e interpretazione della realtà, custodendo e assieme coltivando il dono della visione e dell’immaginazione, innesca quel processo di natura conflittuale e ambigua in grado di restituire una dimensione pratica e politica, quindi possibile, all’atto del fare; atto nel quale il progetto è chiamato a confrontarsi nel momento della costruzione, e non, necessariamente, nella durata (Giancotti)”.

Negli esempi citati si fa riferimento spesso a installazioni con parti riciclate e manufatti di recupero, realizzate con materiali poveri ma dotati di una propria valenza espressiva. Linguaggi fondati sulla battitura irregolare, sulla logica del frammento, l’allusione ironica e l’ambiguità formale, mostrandoci la verità di quanto è celato o se si vuole escluso. Prevalentemente sono operazioni soft e opere leggere, composizioni festose e oniriche, esito di un pensiero creativo articolato; soprattutto sono interessanti in quanto finalizzati a una concreta funzione di orientare lo sviluppo della città e di qualificazione/rigenerazione urbana. Gli interventi si fondano proprio sul convinci­mento che la città, quale struttura in perenne trasformazione, è un ‘luogo della co­municazione’ e della partecipazione collettiva. All’interno di un circuito a più valenze, tra reale e virtuale, si sollecitano meccanismi tendenti a re-inventare l’idea di città, a conferirgli nel coinvolgimento emotivo caratteri di volta in volta diversi: in sintesi un’architettura della imprevedibilità che determina un nuovo glossario antidogmatico.