Recensioni / Quel che ho visto e udito a Roma

Tra il 1954 e il 1955, Roma è la capitale di un paese sconfitto al lavoro per riprendersi: grande lavoro diplomatico da parte di una classe politica tutt’altro che sprovveduta, formatasi tra le due guerre. Si cerca di ristabilire una dimensione internazionale cui sono legati gli aiuti economici. Il denaro americano, gli accordi con la Francia. Roma è in quegli anni anche la città della dolce vita. E’ la città del cinema: Cinecittà è la maggiore industria cinematografica mondiale, dopo Hollywood. Via Veneto, il serpente che attraversa il quartiere Ludovisi, è nel pieno delsuo luccichio.

Ingeborg Bachmann non era ancora la celebrata poetessa che sarebbe diventata di lì a poco. A Roma lavora sotto pseudonimo (Ruth Keller) per la radio di Brema. Che cosa racconta della città? Gli sviluppi del caso Montesi, innanzitutto. Il fattaccio in cui politica e mondanità si avviluppano nella conaca nera. Qui l’attricetta Anna Maria Caglio, l’avventuriero Ugo Montagna (falso marchese), la figlia del titolare di una segheria, la bella Wilma Montesi, il principe Maurizio d’Assia, nipote di re Umberto, il musicista Piero Piccioni, figlio del ministro democristiano degli Esteri in carica Attilio, danno vita a uno scandalo (all’italiana, è proprio il caso di dire) in cui ciascuna parte politica cerca di piegare i vizi privati che emergono dalla cronaca per dimostrare l’inaffidabilità degli avversari Se il coinvolgimento del giovane Piccioni provoca le dimissioni di suo padre (a cui subentra il liberale Gaetano Martino, scicchissimo medicobarone universitario messinese poliglotta, sposato a una principessa Stagno d’Alcontres), anche per i comunisti è pronto uno scandaletto di riequilibrio: l’avvocato Giuseppe Sotgiu, esponente del Pci, presidente della provincia di Roma, difensore di uno degli uomini coinvolti nel caso Montesi, moralizzatore numero uno d’Italia (come lo definisce la Bachmann) viene accusato di frequentare i bordelli della capitale in compagnia di sua moglie. Palmiro Togliatti lo allontana dal partito.

Uno a uno e palla al centro.

Da Roma, la Bachmann racconta ai radioascoltatori tedeschi il quotidiano travaglio dell’esecutivo guidato da Mario Scelba, la frammentaria composizione del suo ministero, la difficile convivenza tra laici repubblicani, cattolici diccì, liberali che stanno per il mercato, socialdemocratici che tifano per l’intervento pubblico. Racconta di come sarà la 600, l’automobile che motorizzerà l’Italia, racconta di un curioso concorso promosso dallo staff di Gina Lollobrigida, all’apice del suo splendore di star: chiusa in un albergo di Milano con ventisei pittori che hanno quattro giorni di tempo per disporre completa-mente di lei e per farle ventisei ritratti. La diva terrà per se quello che le sembrerà assomigliarle meglio. Alle corrispondenze per la radio di Brema, scritte in una prosa cristallina, questo delizioso libriccino unisce alcuni articoli dello stesso periodo per la Westdeutsche Allgemeine Zeitung, e un piccolo saggio, una piccola gemma di memorialistica e di poesia dal titolo “Quel che ho visto e udito a Roma”, che presta il suo nome a tutta la raccolta pubblicata da Quodlibet.

Ingeborg Bachmann parlava perfettamente l’italiano, senza accento. Venne e tornò dalla città eterna per vent’anni e qui morì in circostanze mai del tutto chiarite nel 1971. “Quel che ho visto e udito a Roma”, si conclude così: “A Roma ho udito certamente che più di uno ha il pane ma non i denti, e che le mosche vanno sui cavalli più magri. Che a uno è stato donato molto e all’altro niente; che chi la tira, la strappa e che soltanto una colonna solida sostiene la casa per cento anni. Ho udito che al mondo c’è più tempo che intelletto, ma che gli occhi sono dati per vedere”.