A 93 anni l'architetto-utopista Yona Friedman, ebreo ungherese di formazione francese, sfuggito alla deportazione e allo sterminio, vissuto in Israele in un kibbutz e poi acclamato docente negli Usa, sta vivendo l'età della consacrazione. Celebre sin dagli anni Cinquanta per il suo Manifeste de l'architecture mobile e per le megastrutture, lo troviamo quest'estate in mostra alla Cité de l'Architecture et du Patrimoine di Parigi (Architecture mobile = Architecture vivante, fino al 7 novembre) e con un suo padiglione estivo (una struttura modulare, che può essere assemblata in differenti modi) alla Serpentine Gallery di Londra. Inoltre, pochi mesi fa, è uscito in inglese un primo grande volume sulla sua opera (Yona Friedman. The Dilution of Architecture, a cura di Nader Seraj con Manuel Orazi, Park Books, pp. 581, € 48). Infine, torna in queste settimane, con una nuova postfazione, anche il suo libro profetico Utopie realizzabili (Quodlibet), la cui prima edizione uscì in francese nel 1974 e in Italia nel 2000. E, curiosamente: viene ripubblicato a 500 anni dalla prima edizione di Utopia di Tommaso Moro (1516). L'aspetto incredibile del libro-manifesto di Friedman è che sembra scritto oggi e il suo messaggio ossimorico di un'utopia realizzabile conserva validi aspetti, alcuni forse in corso d'attuazione. L'analisi di Friedman parte dalla critica ai due grandi inganni del nostro tempo: lo «Stato mafia» e la «mafia dei media», strutture scaltre, che cercano di convincerci che «siamo noi a volere quel che loro vogliono». Scrive Friedman: «L'esistenza di uno Stato mafia deriva dall'impossibilità di conservare la forma dello Stato democratico non appena le sue dimensioni sorpassano certi limiti, e la mafia dei media ne è una diretta conseguenza, a causa della impossibilità della comunicazione globale». Internet, infatti, non sarebbe altro che una gigantesca teatralizzazione di «contenuti già noti in precedenza» che anestetizza lìindividuo e rende impossibile «propagare idee nuove». Analogamente, la politica è teatro, con i suoi incontri internazionali che sono messinscena mentre di contro la gestione del potere è ristretta. Un'analisi del 1974 che largamente anticipa quelle degli euroscettici, dei critici verso la finanza globale, della Brexit, e di fronte alla quale l'individuo dovrebbe porsi nel ruolo di «critico dello spettacolo» (tale è l'esercizio della democrazia dei media) per smascherare l'inganno e costruire possibili utopie, anche urbane, perché la città è la prima utopia realizzata. Queste utopie condividono con quelle marxiste e quelle formulate dalla Scuola di Francoforte solo alcuni aspetti di critica sociale, ma riguardano la liberazione degli individui attraverso la creazione di gruppi e comunità di piccola scala (il «gruppo critico»), che sviluppano progetti in modo autonomo e si autoregolano sfuggendo in tal modo al totalitarismo della «presentologia» (l`esserci dovunque e comunque). Mentre la comunicazione di massa «soffoca le idee nuove», il «gruppo critico» le produce in una società non esasperatamente competitiva, ma fatta di «serbatoi» e «bassa comunicazione». Un aspetto di questa società è l'autopianificazione sociale, che sviluppa città non come megalopoli, ma come sommatoria di villaggi urbani a «sviluppo durevole». Le migrazioni diventano strumenti di autoregolamentazione sociale e sono una difesa dell'individuo contro l'iniquità. Questa società di «comunità non comunicanti» (ovvero con differenze culturali) è governata da un «capitalismo sociale» (una specie di capitalismo keynesiano con punte di socialismo), il sovvenzionamento indiretto finanzia i servizi pubblici, sono previsti un reddito garantito, un'imposta unica e il servizio civile come sostituto delle tasse. Infine, non sarà la maggioranza dei votanti, ma quella degli iscritti al voto a esprimere il Parlamento: agli astensionisti («partito degli astensionisti») corrisponderà un numero percentuale di eletti scelti con lo stesso sistema che si usa per designare i giurati di una Corte d'assise.