Recensioni / Dove il passato è un futuro dimenticato

"Io ho l'immaginazione del disastro", scriveva ne 1896 «Henry James in una lettera ad Arthur C. Benson. Un'espressione che Giorgio Vasta potrebbe scegliersi come motto per la sua opera o come esergo per il suo ultimo libro, Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani. Il sospetto dovrebbe averglielo già insinuato uno dei suoi personaggi, Giovanna (se questo lago morto ti sembra un disastro ma anche magnifico, è per come funziona la tua immaginazione), che nella vita è Giovanna Silva, fotografa ed editrice della collana Humboldt Quodlibet nonché organizzatrice del viaggio, insieme al fotografo Ramak Fazel, in vista di quella che doveva essere una guida, narrativa, letteraria, ma anche di servizio, e che invece già lungo il tragitto e poi nella scrittura si trasforma in qualcosa di diverso e indefinibile, senza confini precisi come non ne hanno i deserti: invenzione, meditazione, autobiografia, con Giovanna e Ramak di pagina in pagina sempre più personaggi e meno persone, dotati di caratteri autonomi ma anche incarnazione delle due opposte spinte tra cui è diviso l'autore (e prima di lui Giorgio personaggio): Giovanna l'ordine Ramak il caos, Giovanna che vuole attenersi puntigliosamente all'itinerario da Los Angeles a Houston, consulta mappe, ha sempre in mano l'iPad per documentarsi, Ramak che cerca ogni momento di deviare, di scantonare, di sprecare tempo, convinto evidentemente che dovunque, e vieppiù nel deserto, sia impossibile perdersi come ritrovarsi: la tentazione e l'appiglio, lo strapiombo e il guard-rail. In mezzo Giorgio, che la sera prima di partire, il 30 settembre 2013, fa un sogno confuso in cui gli hanno rubato qualcosa ma non sa che cosa. Ed è ossessionato dalla leggenda metropolitana di una famiglia cannibale che batte il deserto in cerca di cibo, e gli sembra giusto, perché viaggiare è appropriarsi e invece bisogna farsi prendere, invadere, divorare: solo la preda conosce davvero. Il deserto è il posto ideale per farlo, lì dove tutto è abbandonato, sgretolato, sfinito, quanto di più vicino al nulla la mente possa immaginare, e i paesaggi, gli oggetti e i personaggi si offrono con facilità solo apparente alla cattura del linguaggio e della fotocamera, posano docili davanti alla Rolleiflex di Ramak o all'obbiettivo di Giovanna, non rifiutano di recitare da allegorie, ma allegorie in dissolvenza, compiacenti ma come un po' a malincuore, scettiche, talvolta sommessamente beffarde. Vasta non segue, nel suo racconto, un ordine cronologico rigoroso. Ci sono anticipazioni e ritorni, tappe appena menzionate ed episodi su cui si insiste ancora e ancora, cose viste e cose mancate, cose immaginate nel viaggio e cose create dalla scrittura, come se l'intento fosse quello di mettere radici in una terra da cui bisognerà andarsene (il viaggio dura due settimane), di chiamare casa ciò che è l'immagine stessa dell'impermanenza, la zona in cui tutto finisce - finisce anche nel senso di «va a finire», città abbandonate, edifici bruciati, laghi morti, set di vecchi film, progetti abortiti, desideri scaduti, oggetti desueti: l'esito necessario, il futuro inevitabile di ogni presente divenuto passato. Prova ad approfittare del tuo disagio, della tua paura, usali, dice Giovanna a Giorgio quando lui le racconta il sogno. Vasta accoglie il suggerimento a modo suo: non è Ramak che si aggira confidente nel casaccio per ricavare da ogni cosa immagini che si stampino come abrasioni nella cornea (Corneal Abrasion è il titolo della bella sezione fotografica del libro). Come Henry James, deve riflettere, connettere, scavare, andare sotto, indietro e avanti, nel tempo e nello spazio. Un vero scrittore non rappresenta mai il mondo com'è, piuttosto lo rivela incompleto per il fatto che gli aggiunge qualcosa. Per quanto il deserto sia il luogo in cui cose e significato più coincidono, lui cerca sempre di forzare la porta, anche perché via via che procede si trova a fare i conti con la sensazione crescente che la condizione desertica sia una prefigurazione che riguarda sì tutto e tutti, ma lui in modo particolare. Tra lui e il deserto c`è una questione personale. Ma prefigurazione di cosa? Qui Vasta corre un gran rischio, e se la cava per il rotto della cuffia, vale a dire magnificamente. Non poteva sapere, mentre viaggiava, che la sua affinità elettiva col deserto si sarebbe mostrata così letterale, così amara e straziante negli anni in cui poi scriverà il libro: una città abbandonata, ma in Italia, un amore finito male, tutti i suoi averi in un deposito a Zagarolo, un alloggio temporaneo nella casa dei genitori a Palermo. Con tempistica millimetrica, Vasta dosa la rivelazione lungo tutto lo snodarsi del testo, di modo che quando arriva non è un colpo di scena né una morale della favola né un piatto adagio (le desert c'est moi), ma l'origine vorticosa senza inizio e senza fine di un racconto in cui presente passato futuro si scambiano di posto, ricominciano, accolgono fraternamente ciò che poteva essere e non è stato, hanno sempre un`altra chance, non cessano di sparire: un lievito, un germe, non un punto di arrivo. L`hai sempre saputo, è quanto aveva da dirgli il deserto, che è il passato a dimenticare il futuro, non viceversa; che il passato è un futuro dimenticato, per chi ha l`immaginazione del disastro, e forse per tutti.

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