Recensioni / Il nostro viaggio nell'America che non c'è più

All'inizio sono sul treno Roma-Milano-Torino. Al bar incontro Alberto, lavora in editoria, barcollando finiamo per parlare di viaggi. Gli racconto che da tempo mi piacerebbe percorrere gli Stati Uniti, non però il -canonico coast to coast, vorrei che a dettare l'itinerario fossero le ghost town e in generale gli spazi che sono stati prima abitati e poi abbandonati. Un'ipotesi velleitaria, preciso, considerato che non ho neppure la patente. Trascorrono sei mesi e una mattina mi arriva una mail di Alberto. Mi domanda se quel viaggio di cui gli avevo parlato mi va di farlo davvero. Con un fotografo e con Giovanna Silva, che ha appena dato vita a un progetto, Humboldt Books, scrittori e fotografi in giro insieme per raccontare pezzetti di mondo. Se non ho la patente, dice, non importa. Per qualche mese si condividono informazioni, soprattutto nomi di luoghi che dovrebbero esserci ma forse non ci sono più, potrebbero essere spariti, si tratta di andare a vedere. Quando Giovanna e io raggiungiamo Los Angeles, ecco Ramak: camicia hawaiana, bermuda, mocassini; una sacca piena di stoviglie, un'altra da cui affiorano una macchina a pozzetto e una lampada montata su un'asta: il nostro fotografo sembra il Grande Lebowski. Nei primi giorni ci atteniamo ai piani. Certo, non riusciamo a trovare quella che sarebbe la prima tappa, la comune utopica di Llano del Rio, ma visitiamo un cimitero di aerei di linea sparsi a decine, interi o sfilettati, in un frammento di deserto del Mojave, ci aggiriamo per il primo parco acquatico americano, Lake Dolores, dove adesso il creosoto cresce rompendo il fondo di cemento delle vecchie piscine; ín Arizona rimaniamo a fissare un ippodromo abbandonato che somiglia a un`astronave minerale, mentre a Shafter, un ex villaggio minerario texano, incontriamo uno dei ventiquattro residenti, il francescano riformato Brother Simon, che ci fa entrare nella casa di adobe dove vive con il confratello Brother Pascal, pittore di icone (un pomeriggio, nel vuoto perfetto del deserto di Sonora, per circa mille metri guido la jeep ). Dopo un po' mi rendo conto che a farci superare ostacoli e soglie ( che né io né Giovanna varcheremmo da soli) sono l'inglese cordiale di Ramak - «Are you familiar with this area?» è la sua formula magica - nonché la sua Rolleiflex del 1966; una macchina fotografica che, straordinaria nel restituire ogni sfumatura dello spazio, è efficacissima anche nei ritratti: oltre che con il disabitato ci ritroviamo così ad avere a che fare coni disabitanti - coni loro volti, i corpi, le storie. Ed è a quel punto - dopo che intanto siamo finiti per sbaglio in Messico ( attraversando il Texas Ramak sostiene di essersi distratto) e dopo che in Louisiana ( dove il cotone ammorbidisce il paesaggio e sulla moquette di un motel, una notte, compare una ranocchia smeraldina) abbiamo osservato lo spazio ancora deformato dagli uragani - all'improvviso comprendo che il vero oggetto del nostro viaggio non sono gli spazi abbandonati ma il modo in cui a volte le persone se ne vanno via dalle nostre vite trasformando il tempo in cui viviamo in qualcosa di disabitato. Alla fine di tutto, quando nel girogirotondo casca il mondo e casca la Terra, absolutely nothing si schiude e dal suo interno viene fuori inevitabile, terribile, meraviglioso - absolutely nobody.

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