Recensioni / Ironia filosofica per storie vere di cadaveri illustri

Saranno i procedurals tv come «CSI» e «Bones», che ci hanno abituato a dissezioni cadaveriche, dettagli anatomopatologici ed esami del Dna in laboratori all’avanguardia,maprobabilmente pochi ricordano i precedenti scientifici antichi, magari di casa nostra. La memoria risorgimentale ci consegna il nome di Paolo Gorini, pioniere della conservazione dei tessuti ma anche inventore del forno crematorio, cui Lodi ha dedicato un museo. Gorini divenne famoso anche perché nel 1872 mummificò il cadavere di Giuseppe Mazzini affrontando mille difficoltà; era arrivato tardi e il processo di decomposizione era già cominciato (ma su di lui bisogna leggere i libri di Alberto Carli). Non parla di questa storia Antonio Castronuovo (Ossa, cervelli, mummie e capelli, Quodlibet, 186 pp., 15 euro), che però mette insieme una raccolta notevolissima di storie vere che riguardano cadaveri illustri: da Cartesio a Mozart e da Galileo a Napoleone. Ovviamente qualche scena è un po’ macabra,mail libro è una lettura piacevole anche per i non appassionati di splatter. Si tratta di una serie di aneddoti la cui ironia è quasi filosofica e che ammoniscono innanzitutto sull’imprevedibilità delle sorti delle umane spoglie, qualunque fosse l’ultima volontà dei legittimi possessori. Albert Einstein, per esempio, avrebbe voluto essere cremato, ma il patologo che eseguì la sua autopsia non resistette alla tentazione di sezionargli il cervello. Ne ottenne così circa duecento fettine che inviava a chi gliele chiedeva e, naturalmente, si giocò la carriera. Diversi anni più tardi fallì anche nel tentativo di restituire le fettine superstiti alla nipote del grande fisico. Nel frattempo coloro che avevano studiato quella materia cerebrale erano giunti a conclusioni contraddittorie e non particolarmente utili. Epica la vicenda della salma di Lenin, in continuo bilico tra materialismo marxista e mistica di regime, che Castronuovo racconta molto bene. Negli anni Novanta entra in scena la Ritual Service, «società che gestisce le lucrose imbalsamazioni dei nuovi ricchi, membri della mafia russa morti ammazzati». Il tutto in un turbine di cervelli da analizzare e pressioni per chiudere il mausoleo, male ragioni del turismo di massa prevalgono. Il capitolo più istruttivo è quello sul filosofo Jeremy Bentham, che dispone per testamento che il proprio scheletro sia allestito in una «Autoicona» ed esposto alla visione del pubblico inmodo da essere utile a fugare il diffuso terrore per la dissezione dei cadaveri e servire come strumento per la conoscenza del corpo umano. L’apparente bizzarria della scelta si dissolve, se si ricorda che ai primi dell’Ottocento nelle scuole di medicina inglesi non era permesso usare cadaveri che non fossero di criminali giustiziati e che questo fomentava la pratica della violazione delle tombe e del furto dei sepolti (qualcuno ricorderà i resurrezionisti della «Storia di due città» dickensiana). Bentham, solidale con l’amico medico Thomas Southwood Smith che si batteva per allentare tale vincolo in favore della scienza, offrì il proprio corpo per il bene generale, coerente con i propri principi utilitaristici. Tre giorni dopo la sua morte, il suo cadavere fu dissezionato in una lezione aperta al pubblico ed eseguita dallo stesso dottor Smith, il quale poi ricompose la salma nel modo richiesto. Lo scheletro di Bentham, rivestito e atteggiato a una pacata riflessione, fu collocato in una cassa di mogano ed esposto nella sua abitazione londinese di New Broad Street, con il suo bastone e la sua seggiola abituali. Dopo molte vicissitudini e inevitabili sedute di maquillage, il filosofo è ancora un’attrazione, e lo si può vedere – in ottima forma – al museo dell’University College di Londra.

Recensioni correlate