Il saggio Ubicumque del filosofo ticinese Fabio Merlini fa il punto sugli spazi incerti in cui vive l'uomo contemporaneo. Dimensioni sovrapposte per esistenze simili a centrifughe
Cosa caratterizza la Modernità? Sicuramente il tempo lineare. Lotta per l'emancipazione dei popoli, avvento di una società senza classi, epifania di un regno dei fini, progresso del benessere e dei diritti. Ma anche il tempo come eternità: ripresa del Sacro, delle filosofie del destino come radici della vita e strati impermeabili su cui l'uomo ha costruito, smarrendovisi, le manifestazioni incerte e impermanenti della sua storia. E cosa caratterizza la Contemporaneità? Sicuramente la dimensione sincronica degli spazi lisci, delle superfici globali, reali e virtuali, su cui flussi consumistici, produttivi, informazionali, emozionali si allacciano come terminali di un gigantesco reticolare tele-capitalismo che ci detta da dentro cosa fare, chi essere, verso cosa tendere, all'insegna di un universo gioiosamente concentrazionario e intrascendibile.
È questo il focus concettuale di Ubicumque (Quodlibet, pagg. 156, eurp 18) del filosofo Fabio Merlini, professore a Losanna e presidente della Fondazione Eranos: opera che, nello studio critico dell'antropologia dell'attualità, si candida come inaggirabile per lucentezza teoretica e lessicale.
L'eclissi della distanza
Il dovunque dell'"ubicumque" è un'eclissi della distanza, della ponderatezza e dell'engagement che avviene quando un'epoca «non ritiene più di dover accogliere l'incedere del divenire e l'irrompere del futuro come una chance, un'occasione di permuta delle proprie coordinate di riferimento, un laboratorio dove far interagire tra loro esperienze e aspettative "in vista di altro", quando considera l'economia e le forme di amministrazione che la definiscono il culmine stesso dell'organizzazione delle società umane, la forma insuperabile di una governabilità finalmente virtuosa».
Svariando da Junger ad Heidegger, da Anders a Foucault, Merlini ci fa addentrare nella fitta boscaglia dei dispositivi, delle procedure e dei condizionamenti, delle urgenze irriflesse e delle emulazioni parossistiche attraverso i quali si è venuta fondando e fossilizzando quella "ontologia dell'utile" che è non solo parametro valutativo delle nostre azioni, ma soprattutto nebulosa confusionaria e anestetizzante all'interno della quale non percepiamo più scale valoriali, distinzioni semantiche, prospettive di crescita culturale, finanche il nostro declino come esseri vitali.
Ma tutto questo – ci fa capire con grande sagacia etica ed epistemologica Merlini – non avviene per repressioni, impedimenti, clausure e censure. Bensì, al contrario, per il tramite di una "mobilitazione" incessante figlia del profitto e dell'arrendevolezza, della rendicontazione utilitaristica di ogni libertà e della positiva affermazione di tutto il repertorio degli oggetti e delle opportunità che il mercato offre. Se già Nietzsche parlava di "fretta generale", "crescente velocità" e cessazione di ogni "contemplatività", di una furia disgregatrice e autoreferenziale, insomma, che arriverebbe a negare ogni audacia del pensiero, ogni profezia di un altrove, di un domani possibile, cosa possiamo sperare noialtri servi delle iperconnessioni telematiche, dei richiami televisivi e pubblicitari, dell'imperio della formazione perenne e dell'aggiornamento continuo di mezzi e prestazioni, dell'effetto-domino di notizie, immagini, prodotti, condivisioni? Potenziamento, estensione, moltiplicazione, canalizzazione: sono gli indici di valorizzazione motoria, potremmo dire, di comunicazione, lavoro, socialità, apprendimento, relazioni. Il potere cessa con la sua dimensione patibolare, corporale, reelusiva, e si apre alla perfomance indefinita, al godimento illimitato, alla disabitazione delle soglie.
Una titanica bio-politica inietta bisogni, reperta energie nervose, satura l'attenzione, surriscalda i desideri, spalanca le vertigini del sogno e dell'onnipotenza, innesca e disinnesca paure e allarmi sociali, impone la redditività su tutto, l'autoimprenditorialità come ratio esclusiva, l'immediatezza come unico spirito comunitario. La pressione al fare senza resistenze e senza attese si manifesta come una "dipendenza funzionale" tra soggetti e cose che manda in stallo il tempo dei processi trasformativi arrestandolo, presentificandolo; e gli individui sono sospinti «verso un'estroversione iperattiva in conseguenza della quale si finisce inevitabilmente con il mancare l'appuntamento con se stessi. Ciò che sembra venir meno sono le occasioni per riconfermare quello spazio della presenza di sé a sé a cui la nostra tradizione ha dato il nome di interiorità. La convocazione, in questo caso, agisce come un reiterato invito allo sconfinamento che centrifuga l`esistenza allontanandola appunto dal centro».
Tutto scorre nella dismisura di forze che intrappolano l'individuo, dissacrando ogni contesto prescrittivo (della morale, delle istituzioni, della conoscenza, delle meritocrazie, della dignità dei singoli e di intere etnie), assorbendo ogni telos ideale nella commercializzazione, nelle prassi agili che ospitano "fruibilità senza ostacoli" (delle monete, delle reti, degli algoritmi, dei click, dei like). La verità è sempre più il braccio armato della disciplina, non il volto rassicurante dell`oggettività, ed è tanto più incisiva quanto più imperscrutabile, poiché limita, a monte la rivedibilità stessa del reale con letture che non assecondino i rapporti di forza vigenti.
L'alternativa? Un ritorno proprio alle alternative. Cioè a quella penombra della "lontananza" che non è direttamente mediatizzata, spettacolarizzata, neutralizzata dagli schermi e dalle collusioni economiche, ma che ripropone l'inaudito, l'ipotetico, l'ecologia simbolica di una dimensione collettiva dei fini e dei progetti dove dimorare. Solo allora "l'intelligenza delle implicazioni ad ampio raggio e a lungo termine" potrà battere il respiro corto degli interessi, dell'insignificanza, dell`impellenza che condanna a tutt`oggi l`uomo a una notte di schegge dorate e stelle nane.