Recensioni / L'utopista didascalico della misura urbana.

Nato nel 1923 a Budapest, diplomato all'Istituto Tecnologico di Haifa, attivo a Parigi dal 1948, Yona Friedman appartiene a una generazione di architetti che ha avuto un compito particolarmente difficile. Essa ha ultimato infatti la sua formazione nel momento in cui l'architettura moderna si era definitivamente affermata costruendo una mitologia centrata su figure leggendarie come Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, Walter Gropius, Ludwig Mies Van der Rohe. Tuttavia tale vittoria, resa possibile da una intensa attività propagandistica, non aveva nascosto, ma anzi reso più evidenti, i limiti insiti nella rivoluzione figurativa e tecnologica che aveva trovato il suo culmine nell'azione delle avanguardie. Limiti consistenti non solo in un carattere astratto delle metodologie di intervento e in una evidente rigidezza del linguaggio, che aveva incorporato come principale ingrediente il modello della macchina, ma soprattutto in uno schematismo deterministico che rendeva le soluzioni progettuali prive di una vera complessità e di quella capacità di interpretare i luoghi che ogni edificio dovrebbe possedere. In più il progetto moderno, prevalentemente razionalista, si configurava come qualcosa di intrinsecamente autoritario che faceva cadere dall'alto analisi e conseguenti previsioni sovrapponendole alla singolarità delle realtà locali. Tali limiti erano poi amplificati dalla natura intrinsecamente «autoreferenziale» del progettare moderno. Quasi per riequilibrare la tendenza a pervadere ogni aspetto della realtà con un’ossesiva presenza prescrittiva si chiedeva all'architetto di proporre uno stile il più personale possibile, che si riteneva tanto più valido quanto più rescindeva ogni legame con le convenzioni comunicative proponendosi come sorprendente e incomprensibile. Seguendo in questo la pittura, la scultura e la musica, l'architettura moderna non cercava la popolarità pur proponendosi come un sapere che voleva risolvere ogni problema della città e dei suoi abitanti.
Nei confronti dell'essenza astratta e totalizzante del progetto moderno e dell'esigenza dell'autografia la generazione di Yona Friedman ha cercato di opporre una maggiore considerazione delle differenze che attraversano e segnano l'abitare nonché una concezione meno soggettiva del linguaggio. La preoccupazione per un maggiore radicamento dell'architettura nella società, interrogata nelle sue manifestazioni più autentiche e nei suoi processi aggregativi primari, è stata al centro di una ricerca volta a una estesa revisione dei fondamenti del progetto. Assenti dalla ricostruzione postbellica perché troppo giovani, ma segnati in profondità dalla tragedia della seconda guerra mondiale, gli architetti di questa generazione salgono alla ribalta quando, riedificate le città distrutte, si pone il problema di una loro nuova espansione. Alla fine degli anni cinquanta le città diventano metropoli e queste si trasformano in megalopoli: nascono nuove funzioni urbane, si fa strada la necessità di connettere ambiti prima separati, emergono forme nuove di cittadinanza. La proliferazione delle infrastrutture, l'inquinamento, la dimensione abnorme degli insediamenti, la grandezza dei quartieri popolari, spesso segregati in aree prive di collegamenti, disegnano un quadro problematico che costringe gli architetti a un improvviso e radicale salto conoscitivo e creativo. È la stagione delle grandi utopie urbane che vede i progettisti allestire scenari prossimi all'immaginario fantascientifico nei quali labirintiche megastrutture, colonizzate come barriere coralline da incrostazioni edilizie che si avvicendano in ravvicinati cicli vitali, si dispongono in uno spazio territoriale completamente edificato, che coincide con intere regioni.
È in questo momento che Yona Friedman conquista una meritata notorietà con la sua ipotesi d «Città spaziale». Si tratta di un'idea insediativa basata su strutture tridimensionali aeree, derivate dalle ricerche svolte da Konrad Wachsmann sulle coperture metalliche reticolari, poggianti su piloni che ospitano i percorsi verticali e gli impianti. Questi piloni, disposti secondo maglie di cinquanta per cinquanta metri, sostengono una intelaiatura in acciaio destinata ad essere riempita per la metà del suo volume. Questa città spaziale sorvola il territorio e la città configurandosi cosi come una sorta di «cielo urbanizzato». L'intenzione è quella di offrire agli abitanti un suolo artificiale da utilizzare liberamente per mezzo di una attività edilizia che recupera i modi dell'architettura spontanea, un costruire libero che riflette i ritmi biologici della città. Oltre che di questa ipotesi, Yona Friedman – filosofo e studioso di temi socio-antropologici oltre che architetto – è autore di alcuni saggi. Uno di questi, dal titolo Utopie realizzabili (trad. di Susanna Spero, pp. 240, Euro 14,00), è ora pubblicato da Quodlibet, una piccola casa editrice di Macerata che a un sofisticato catalogo affianca
volumi dall'ottima veste tipografica. Uscito nel 1974 il saggio è stato integrato da numerose aggiunte, che se hanno lasciato intatta la sua iniziale carica visionaria e insieme fortemente didascalica, hanno consentito all'autore di proporre alcune riflessioni su problemi di grande importanza emersi negli ultimi anni, quali ad esempio la globalizzazione. Suddiviso in nove capitoli preceduti da una prefazione e un'introduzione e conclusi da un paragrafo che elenca alcune proposte concrete; dotato di un'appendice che raccoglie alcuni brevi testi i quali approfondiscono punti particolari; costruito su una cadenza discorsiva crescente e avvincente, il libro si sospende tra l'agilità del manuale e l'arnpiezza tematica del trattato. Tra i temi proposti si segnalano: l'utopia nei suoi vari generi; i concetti di società e di ambiente; la nozione di «Gruppo critico», piccola comunità in grado di autoregolarsi che presenta una dimensione-limite oltre la quale essa si dissolve; la competizione; la democrazia diretta; la comunicazione. Utopie realizzabili un libro «proveniente dal futuro», è destinato non solo agli architetti ma a tutti coloro che sono interessati a comprendere la struttura della società e della città che ne è la «forma costruita». È un libro utile, dalla scrittura estremamente chiara, in cui convivono due componenti. La prima è un grande rigore analitico che consente all'autore di semplificare, senza banalizzarli, argomenti piuttosto difficili, visivamente tradotti in grafici di immediata lettura; la seconda è una intensa energia riformatrice, attraversata da risonanze illuministe, che si muove verso la prefigurazione di nuove libertà per i cittadini, che il libro introduce a una attenta consapevolezza di tutti i passaggi attraverso i quali la vita sociale si esplica.

Esito propositivo del volume è l'idea di «Città globale» come una rete di «villaggi urbani» di dimensioni conformi, abitati da individui uguali ovvero non associati secondo privilegi gerarchici, entità insediative capaci di comunicare autonomamente tra di loro senza subire un'informazione eterodiretta e di «autopianificarsi», aperte a una «migrazione» che non metta in crisi il principio del «Gruppo critico».
Come tutte le teorie potentemente sintetiche anche quella espressa da Yona Friedman si espone a molte critiche. Essa sembra non tener conto della differenza di culture tra i diversi gruppi sociali che abitano le città e i «villaggi urbani»; tende a ridurre le relazioni tra persone e gruppi sociali a pure forze vettoriali, come in un teorema di meccanica razionale; non contempla la presenza in ogni processo urbano degli imprevisti, vale a dire di quei fattori di «discontinuità» che sregolano i normali funzionamenti della società determinando scarti improvvisi. Oltre a questi rilievi c'è da osservare che mancano in Utopie realizzabili i piani del linguaggio e della narrazione. Riducendo la società e la città a questioni di organizzazione, e ricadendo così nell'ambito di quella razionalità riduttiva tipica del progetto modemo che egli, ai suoi esordi, aveva criticato, Yona Friedman dimentica che non si dà vero mutamento che non sia anche e «soprattutto» linguistico. Un mutamento, compreso quello dell'architettura, che è sempre il risultato di «nuove narrazioni», intendendo con ciò il sedimentarsi di plusvalori concettuali ed emozionali, tradotti in scritti, in produzioni iconiche e in racconti orali, che in tempi più o meno lunghi accumulano un'immensa forza che, spesso improvvisamente, modifica la città. Plusvalori che sono per questo la causa e non l'effetto delle trasformazioni sociali e urbane. Nonostante queste critiche, che per chi scrive non sono marginali, il libro si offre al lettore come un percorso agevole che può sicuramente aumentare la sua conoscenza della società e della città. Una conoscenza non certo accessoria ma determinante per aumentare la possibilità di vivere la città partecipando in modo diretto e creativo alla sua evoluzione.