Recensioni / I bei giorni di Aranjuez

I bei giorni di Aranjuez di Peter Handke (Quodlibet 2016, a cura di Alessandra Iadicicco) è un dialogo tra due figure, un uomo e una donna, Fernando e Soledad (che resteranno anonimi fino alle ultime battute), in un’atmosfera di sospensione, di attesa, di preparazione, che si spegne nell’incompleto, nell’incompiuto, dentro un paesaggio naturale ma indefinito.

“Un dialogo in cui rispondi solo un «sì» va contro i patti”, p. 49; “Una battuta del dialogo ridotta solo a un «no» va contro i nostri patti”, p. 50.

Tuttavia si tratta di una conversazione fatta unicamente di parole, di immagini suggerite, chiare e sfocate al contempo, mentre fuori imperversa l’estate, una stagione di vita immobile e di solitudine senza scampo: “Ehi, niente azione! Non si era forse pensato così? Nessuna azione – nient’altro che dialogo”, p. 69; “Nessuna pena qui, ti prego. Per favore, niente angoscia, niente cruccio”, p. 70.

Poco si sa dei due personaggi: “Entrambi indossano sobri vestiti estivi, la donna piuttosto chiari, l’uomo invece più scuri, senza tempo, tanto l’uno quanto l’altra”, corsivi nel testo, p. 9.

Le voci seguono un ritmico oscillare tra l’esterno dell’ambiente e l’interno della storia, tra il ricordo e il presente, l’individuale e l’universale, il corpo e il paesaggio. Il lettore assiste a un flusso, talvolta consistente in un monologo, talaltra in un canto a due voci, che si interrompe e si ripete, avvicinandosi e allontanandosi dal tema principale, l’amore.


“LA DONNA

[…] Dondolava lui, dondolava lei. Che silenzio qui.

L’UOMO

Che silenzio si è fatto. Oggi in particolare, da stamattina. Persino le rondini hanno smesso di garrire. Al massimo si sente il fruscio lieve delle loro ali quando all’improvviso, in stormo, passano in volo sopra il giardino, venute da dio sa dove, nate appena un attimo fa, dallo spazio aereo in persona. Uno stormo simile mette gioia”.

Perché il linguaggio è un persistente sfiorare, lambire l’oscurità, l’irrappresentabile e un ritrarsi, una deviazione, la ricerca di altre vie; di qui il suo carattere incerto e sensuale. Ma esso è anche chiarissimo e ingovernabile, doloroso come l’improvviso che folgora, trasforma, ma non lascia ricordo di sé: “Il lampo che mi ha attraversata non ha lasciato traccia”, p. 15. Oppure sì: “[…] mi lasciò il segno di una sferzata, un livido”, che tempra e rafforza e che non è una punizione, piuttosto la testimonianza dell’insopprimibile vitale contraddizione dell’essere al mondo: “C’era un essere infantile che dondolava sull’altalena e al tempo stesso una gigantessa”, p. 17.

E ancora: “Ciò che si ama, lo si è perso fin dall’inizio, e per sempre, anche se non lo si è perso”, p. 72.

Perché forse si può amare davvero solo la fragilità, ossia l’invisibile luogo in cui la vita coesiste con la sua assenza, si può amare solo l’irraggiungibile, l’incomprensibile perché non lo si pensa come oggetto, come proprietà:

“[…] questo che di vivo, il sentimento della vita che avvolgeva l’uomo e me, proveniva, esattamente al contrario, dalla fragilità dell’uomo, dell’altro sesso – dalla prolungata disperazione dell’uomo insieme a me. Amore voleva dire: commozione per questi uomini fragili, per tutti loro”, p. 52; “[…] ho provato amore – per un bambino o, ancora più intenso, per un vecchio, qualcuno che fosse decrepito, prossimo a morire”, p. 61.

Presente e inattuale è il paesaggio, e gli uomini e le donne sono solo figure, passanti, mossi e trasformati dal tempo e non dalle proprie azioni, attratti e terrorizzati dalla fine, che è limite e apertura sull’ignoto.

“Guarda là, l’altra eternità”, p. 75.

Amare è quindi accettare di abbandonarsi, di essere esposti a quell’assedio comune, di “riposare assieme, l’uno vicino all’altro” (p. 57), di essere parte del paesaggio.