Recensioni / La polis senza politica, l'utopia chic di Friedman

Firenze. Yona Friedman parla senza presunzione, "modestia" è una parola che usa spesso, vuole essere un "saggio" che nulla ha da insegnare, solo una vita appassionata da raccontare. “Architetto?” No, non sono un architetto. Non sono uno spe­cialista. Mi sono fatto una certa immagine del mondo e cerco di comunicarla. Ma an­che il mio cane ha una sue immagine del mondo", spiega pacato al pubblico, accorso a Firenze ad omaggiarlo in occasione della presentazione in Italia dei un suo celebre libro "Utopie realizzabili", rinnova­to nei contenuti e ritradotto delta case edi­trice Quodlibet di Macerata. Applausi di cortesia, nessuno gli crede. Magari non sarà un architetto, ha edificato sì e no un paio di edifici, però con le sue idee e intuizioni travasate in saggi o in inimitabili schizzi ha influenzato un paio di generazioni di architetti, oltreché  di sociologi e di filosofi.
Cerca di insegnarci l’apparentemente impossibile, cioè che le utopie possono es­sere realizzabili. Ungherese di cultura francese, ha ottant’anni, appartiene ad una generazione provata da guerre, rivolgi­menti e rivoluziuni d'ogni sorta, ma anche capace di progetti, di illusioni e miti oggi impensabili. Tra gli anni Cinquanta e Ses­santa come reazione alle distruzioni e all’apatia seguita al secondo conflitto mon­diale, esplodeva dovunque una frenesia di invenzioni, profetismi c paradossi. Venne formulato uno dei "paradigmi" essenziali del nostro tempo, il paradigma del network e della comunicazione globale, da cui scaturì un'idea da Superman: che il mondo, avviluppato nella rete del network, potesse trasformarsi in un villaggio unico, "globalizzato". Su questo binario si mosse­ro infinite follie urbanistiche e architetto­niche. Seguì la ovvia disillusione, e ci si diede allora ad esplorare altre terre idea­li, ripudiando il brutale avvenirismo tec­nologico. In questo clima si sviluppa la ri­cerca di Friedman sui valori e le forme possibili di una società programmatica­mente utopica, ma anche concretamente realizzabile. La tratteggia in questo libro: dovrà essere la comunità degli individui collegati essenzialmente da uno scambio linguistico personalizzato, senza la mediazione delle tecnologie diffusive "globali” che invece di favorire la comunicazione la impediscono o distorcono. Una Palmanova fondata non su mura ed edifici, ma con la cooperazione tra pari, e dunque democra­tica. Quanto Friedman ha via via fatto, le invenzioni delle Città Mobili, delle Città Spaziali, della Città-ponte sulla Manica, le architetture povere dei kibbutz israeliani o di Madras, è stato votatto a promuovere la centralità dell'uomo che si autodetermina. Negata la ipertecnologia, ma anche ogni gerarchia e oligarchia, insomma la politi­ca, "Mafia" o "Racket" che anch'essa im­pedisce agli uomini di inter-comunicare. La platea, un po' radicalchic, applaude.
Forse incombe l'ombra di un equivoco: lui assertore intransigente della progettazione democratica della democrazia dialo­gante, rischia di divenire un estremista dell'antidemocrazia quando respinge o ignora quel dialogo storicamente ineliminabile che è tra errori e violenze, la concretezza della politica.
Usciamo in un corrusco tramonto, forse raffinata escogitazione promozionale del gruppo Targetti, azienda protagonista mondiale dell'illuminazione architettonica e organizzatore-sponsor dell’evento Friedman in questa mirabile villa "La sfacciata" appartenuta un tempo alla famiglia Vespucci. Già, da qui Amerigo issò le vele per dare il proprio nome al Nuovo Mondo. Sospiriamo: il NuovoMondo, cioè il massimo importatore e produttore di utopie e di buon governo, a a partire dai pa­dri fondatori, dal quacqhero William Pen, o da quei poeti inglesi, Coleridge, Wortd-sworth e Southey, decisissimi a fondare una “Pantisocracy” sul Susquehanna River; o anche con la saga della Frontiera e il rinnovamento degli "shakers", a sua volta ispiratore e modello delle migliaia di  "Comuni" esplose negli anni Sessanta per mettere assieme tecnologie povere. comu­nione dei beni, fantasia e democrazia di­retta (che lì resta sempre un mito fondante: roba che in Europa nemmeno ce lo so­gniamo­.