Recensioni / Celati omaggia i maestri nascosti della letteratura

Meno battuta, vivissima e immune dal dover essere che ammorba le tendenze letterarie conclamate è la linea che indica Celati in questa raccolta di lezioni ed esercizi critici riguardanti alcuni degli autori da lui più amati, interpreti di una letteratura estranea alla ricerca del facile consenso e marcata da una propriaintensa qualità poetica. Partendo da una ricognizione attorno a maestri antichi più e meno noti, lo scrittore nato a Sondrio nel 1937, con uno stile lieve, duttile e antiretorico che ne accomunai saggi ai testi narrativi, racconta della straordinaria verve del Boccaccio novelliere, destinata a essere addomesticata e stinta dai suoi epigoni per poi rinascere nella miracolosa apparizione del Cunto de li cunti di Basile; passa all'Ariosto e a quell'"incatturabile oggetto dei desideri" che disinnesca l'arte delle trame, pensata quasi come un'arte tessile, con una simultaneità di linee che leva al tempo una specifica durata e consente libere contraddizioni, immaginazione piena e metamorfosi continue; si dedica quindi allo scarsamente letto Tommaso Garzoni, animato da vena comica e rabelesiana, che pubblica nel 1585 La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo, inventario onnivoro di attività e mestieri che ricorda la fantastica e dettagliatissima congerie pittorica di Bruegel.
Altro trascurato narratore ottocentesco dall'umorismo audace rivalutato da questi Studi d'affezione è Vittorio Imbriani, che ricorre perfino all'arzigogolo, allo sgorbio e allo scarabocchio pur di far brillare la sua favola più movimentata e memorabile, Mastrimpicca. Ci avviciniamo progressivamente a noi e agli autori di un Novecento trasversale: quello di Federigo Tozzi, con la sua meravigliosa Ghisola di Con gli occhi chiusi, creatura femminile simile a «un animale umano radicalmente insalvabile, senza le finzioni di salvezza su cui si basano i modelli umani approvati», e con quel suo sguardo "dal di dentro" che sbaraglia le consuete trame narrative. Silvio D'Arzo (1920-1952) è una limpida meteora che con un senti mento dell`universale estraneità e una reticenza prossimi ai colori astratti e raffinati di Henry James elimina dai suoi racconti il simboli sino dell`azione e l`insipiente culto dei fatti.
Celati approda nel penultimo di questi scritti a una delle più alte e meno frequentate voci del secolo scorso, Antonio Delfini, che nelle rapsodie affilate dei Diari restituisce un raro affresco dei costumi del suo tempo, e sciogliendo corpo e anima in una prosa da incantato perditempo – il superiore ozio assunto per chiamarsi fuori da ogni logica competitiva – pubblica con Il ricordo della Busca il libro di racconti forse più bello del Novecento italiano. Chiude questo spassionato e rischiarante volumetto il Discorso sull'aldilà della prosa, in cui alle bolsaggini retoriche dei troppi seguaci del Manzoni – con l'eccezione di una figura come Gadda, capace di radicalizzarne l'impianto e le premesse per reinventarsi un universo a parte –, si preferisce «la linea astratta della prosa leopardiana», che «non mette in prosa blocchi di pensiero già pronti, ma insegue idee che si sviluppano mari mano nel flusso delle parole»: linea erratica e frammentaria, fulgida nelle Operette morali, che dà origine a una limitata riserva di scrittori e pensatori, tra i quali Carlo Michelstaedter, autore di un unico libro filosofico dove «la moralità dell'ottimismo moderno viene messa duramente in questione», o Giorgio Manganelli, per cui «ogni idea di progresso storico diventa l'idea di un disastro che si espande», e i contemporanei, prossimi al Celati stesso, Daniele Benati ed Ermanno Cavazzoni.