Burri: l'artista che fece della sua pittura un grido di rivolta
Alberto Burri avrebbe avuto cent'anni nel 2015, che pertanto è stato anno di ricordi, riflessioni e ripensamenti, alla ricerca dell'origine di un'esperienza artistica che, anche quando si confronta con le altre contemporanee, conserva una sua suggestiva originalità, che da subito, dai primissimi disegni durante la prigionia nel Texas, a Hereford, durante la guerra, si afferma con la forza di una testimonianza assolutamente interiore, convincendolo a seppellire le sue ambizioni di medico, chiuso in un orgoglioso e risentito isolamento, ostinatamente avverso a qualsiasi complicità coi vincitori. Era solo, assieme ai suoi più fedeli compagni di sventura, Burri, quando, in stretto dialogo con loro – Berto, Troisi, Tumiati – trovò nell'espressione artistica lo sfogo di una rabbiosa sofferenza esistenziale che poteva prescindere da qualsiasi tradizione e aspirare a ricominciare letteralmente da zero. Confrontandosi con la materia e il colore per dare voce a un pessimismo radicale che non riusciva a intravedere, oltre il filo spinato del campo, nessun orizzonte di speranza e, quindi, si accaniva su quanto aveva a disposizione con spirito di rivalsa e ansia di riscatto.
Quando, finalmente, tornò a casa la decisione era presa: sarebbe stato per sempre un artista, e cosi fu dalla prima mostra, nel '47, nella galleria romana L'Obelisco di Gasparo Del Corso, in via Sistina, presentata da Leonardo Sinisgalli e Libero De Libero, con il decisivo avallo di Pericle Fazzini, "il primo che apprezzò davvero le mie opere". Avverrà poi durante gli anni '50 la definitiva affermazione di Burri, con i Sacchi, i Neri, le Muffe, i Catrami e i Cellotex, che ne sanciranno il successo internazionale, anche grazie a una costante e generosa attenzione di una critica puntuale e rigorosa. che nelle parole di Enrico Crispolti riassume la sua più incisiva definizione: "la pittura di Burri è intimamente atto d'accusa, violazione di ogni ingiusto e immotivato ottimismo" (1959). Crispolti resterà per sempre fedele al suo Burri "esistenziale", gia delineato nell'Omaggio curato a L'Aquila nel '62 (i suoi interventi, a cura L. P. Nicoletti, sono ora raccolti in un libro di Quodlibet) rifiutandone ogni lettura "formalistica", come definisce quelle di Cesare Brandi o di Vittorio Brandi Rubiu (Alberto Burri, Castelvecchi).
Solo di fronte al grande Cretto bianco di Gibellina, che, sviluppando un'idea lentamente maturata net corso di un ventennio, sarà realizzato verso la fine degli anni '80, i giudizi della critica si ricomporranno in un unanime entusiasmo: "l'ultima sua impresa davvero importante è veramente emozionante" (Crispolti), "fare delle rovine di Gibellina l'aspetto immoto e pressoché eterno della città che sorge a lato, è stata un`idea formidabile" (Brandi Rubiu).