Nella storia ebraica, e non fa eccezione quella italiana, l' acquisizione di un terreno cemeteriale costituiva la prima richiesta che veniva avanzata alle autorità locali dalla comunità, grande o piccola che fosse, per stabilire la possibilità e la legittimità del suo insediamento. Paradossalmente il cimitero, dove gli ebrei erano stati sepolti per un lasso di tempo più o meno lungo, rimaneva pressochè l'unica testimonianza della loro presenza storica in una determinata città, anche quando da secoli l'avevano abbandonata forzatamente o di loro spontanea volontà. Le lapidi tombali, le scritte in ebraico con i nomi dei defunti. i simboli religiosi e gli stemmi di famiglia, talvolta danneggiati dalle intemperie o dalla mano dell'uomo, coperti dal terriccio o dai licheni, rimanevano muta testimonianza della vita della comunità, della sua prosperità e consistenza demografica, oltre che degli eventi, talvolta traumatici, che l'avevano colpita in tempi diversi. All'ombra di secolari cipressi quelle pietre, talvolta povere e modeste, talvolta imponenti e grandiose, raccontavano una storia affascinante, altrimenti perduta per sempre. Beth ha-chaim, "la casa della vita", era il nome con cui era indicato a ragione il cimitero ebraico. In quel luogo erano sepolti i membri di una comunità religiosa che con la sua attività commerciale ed intellettuale era entrata in rapporto con la società cristiana, all'interno della quale in tempi lontani o recenti e in condizioni diverse aveva scelto di operare. In passato il terreno assegnato dalle autorità agli ebrei per uso cemeteriale, la cosiddetta "sepultura dei giudei", era sempre extra muros, nei sobborghi e nella campagna. Il corteo funebre doveva farsi aprire le porte della città, di giorno e più spesso di notte, quando la mesta cerimonia presentava meno inconvenienti e pericoli per i suoi partecipanti, come il lancio di sassi o l'assalto armato (uno dei più recenti avvenuto a Roma nel 1879 con colpi di arma da fuoco, alcuni feriti e l'intervento decisivo della gendarmeria). Mentre i cristiani sceglievano la loro ultima dimora intra muros, nelle chiese o nei cimiteri ad esse adiacenti, agli ebrei era assegnato un luogo di sepoltura distante e suburbano. La separazione topografica nella morte metteva senza ombra di dubbio la differente condizione dei cittadini cristiani e degli ebrei che non erano accettati su un piano di parità ma piuttosto tollerati per motivi contingenti e di convenienza. Ancora oggi i resti di ogni camposanto ebraico e perfino i cimiteri di nuova erezione, appartati o in qualche misura abbandonati e fuori mano, sono testimonianza di questa realtà storica. Andrea Morpurgo ha rivisto in questo suo saggio, Il cimitero ebraico in Italia. Storia e architettura di uno spazio identitario (Quodlibet 2014), con occhio critico e attento, i mutamenti di lunga durata e la complessa e diversificata avventura degli ebrei italiani e dei loro cimiteri. Ne ha studiato con intelligenza e sensibilità la storia e analizzato l'interessante evoluzione, soprattutto dal punto di vista architettonico e urbanistico dal medioevo al periodo successivo all'Unità. Penso che, in particolare per quanto attiene al quadro d'insieme dell'Ottocento e del primo Novecento, il saggio di Morpurgo sia originale e importante, frutto di un'agile prospettiva. sempre comprensiva e istruttiva. Ogni ricerca scientifica che in futuro avrà per oggetto i luoghi ebraici di sepoltura in Italia non potrà prescindere da questa brillante ricognizione documentaria di Morpurgo.