Recensioni / Vasta, Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani

Lo scrittore Giorgio Vasta e il fotografo Ramak Fazel alla scoperta dei deserti nordamericani e delle storie che nascondono

I libri di viaggio della casa editrice Humboldt, in cui la voce di uno scrittore si accompagna a quella di un fotografo, sono resoconti di spedizioni tra il fisico e l’immaginario, il racconto di come le storie e gli spazi si riflettono in chi li attraversa. Più che in tutte le altre pubblicazioni, questo aspetto è alle fondamenta di Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani; scritto da Giorgio Vasta con un inserto fotografico di Ramak Fazel.

Quello che Vasta intesse è un duplice percorso tra la vasta zona desertica al confine tra Stati Uniti e Messico (il deserto del Mojave e quello del Sonora dove, un po’ più a sud, scompaiono le ragazze di Roberto Bolaño) e la sua viva percezione del viaggio e del vuoto che è chiamato ad attraversare. I suoi due compagni, Ramak Fazel e la direttrice editoriale di Humboldt Giovanna Silva, diventano allora personaggi di una storia, guide di un percorso interiore prima che fisico.

Silva, chiamata sempre da Vasta per cognome, Silva che è un po’ Selva, la guida virgiliana che cerca le risposte su Google o le tira fuori con lucidità spietata dall’inconscio dell’autore. Ramak, padre di famiglia portatore di un’energia sconclusionata e irriverente, in bilico tra lo scherzo e la serietà (e anche qui, la verità della persona si ritrova all’interno di un vuoto, in quello scarto infinitesimale tra la burla e la realtà); Ramak che dilata lo spazio del viaggio andando a dilatarne il tempo.

Nessuna metafora, solo fenomeni

Il deserto attraversato da Vasta è uno spazio vuoto della percezione in cui l’uomo, unico essere vivente affetto da horror vacui, cerca di rendere visibile la sua presenza attraverso l’accumulo bulimico. Il percorso di viaggio segue la rotta di quei paesi in passato floride isole commerciali nella scorpacciata turistico-consumista degli anni ’80 e che ora giacciono abbandonati ad aspettare che il tempo li consumi. Gli ultimi abitanti, rimasti per disperazione o povertà, aspettano anche loro, osservando come in un infinito cinema all’aperto questo tempo che è fenomenico, materiale (ricordandoci il primo romanzo di Vasta), e si srotola nello stretto spazio rimasto tra la carcassa di un lavandino e una vecchia poltrona sventrata, verso l’ampio nulla di sabbia e fango.

Stay alert, stay alive

Fin dalle prime pagine risuona un cupo presagio: l’incontro immaginato da Vasta con la famiglia antropofaga. Mostro dalle mille facce e dalle mille bocche digrignanti, dalle mille pance gonfie di birra e i mille occhi stanchi di programmi televisivi e pubblicità. L’incontro, sempre evitato, con la famiglia antropofaga risuona in ogni scambio, in ogni approdo. Vasta, Fazel e Silva, vati sconclusionati del Grande Nulla, sembrano i soli vivi, forse per questa loro funzione di passaggio, per questo movimento che li assimila al tempo e al “qui e ora” e inevitabilmente li contrappone al “sempre” delle cose e delle persone che stanno e restano.

Sono vivi, mentre la famiglia antropofaga li vorrebbe morti, come i cimiteri che attraversano. Quello delle insegne al neon di Las Vegas e quello degli aerei nel deserto del Mojave, due diverse manifestazioni della stessa memoria e della stessa immobilità. Le insegne al neon, un tempo luminose promesse di un attimo migliore, stanno una accanto all’altra come piccole ossa di rettili, come lapidi. E gli aerei, grosse balene spiaggiate lontano dal mare, con il ventre vuoto della fusoliera in cui penetra sottile una luce incolore.

Fede e sfacelo

Vasta nei deserti americani e sulle rive del Mississippi cerca il vuoto, lo scarto che separa le cose e il loro contrario, il nulla che sembra di cogliere con la coda dell’occhio, ma, appena si guarda con più attenzione, è irrimediabilmente perso. Sulle tracce del vuoto trova macerie, e non c’è posto migliore, per cercare macerie, degli Stati Uniti d’America, dove nessun crollo diventa rovina storica, ma solo cosa vecchia. I fatti, nelle parole di Vasta, divengono la cronaca tangibile di uno sfacelo: mattonelle rotte che custodiscono il segreto della fine di un luogo, che lasciano intravedere il “come” del nulla, mentre questo resta ancora invisibile.

Alla ricerca del vuoto, quello che ci riporta Vasta sono persone, una raccolta di volti angoscianti e reali tanto più umani quanto drammatici, balle di sterpi che danzano nel deserto. Jeanne e Rudy, che accumulano oggetti e tempo a Bombay Beach; Jane, ottantaquattro anni e la porta di casa a Twentynine Palms lasciata aperta per far entrare Jesus Christ; Brother Simon, frate francescano che ha scelto il Texas e la vita contemplativa; Joe, gestore del Desert Market a Daggett, i cui modi rapaci potrebbero dare inizio a un sequel di Misery non deve morire; e ancora Billy Gibbons, cantante degli ZZ Tops, in visita al museo di Roswell, a cercare un atto di fede come tutti.

E come atto di fede, forse, bisogna leggere questo immenso lavoro di Vasta e Fazel, fede nelle macerie e nel ricordo della catastrofe, fede nelle manifestazioni di un nulla che più spesso si nasconde, e anche fede nella famiglia antropofaga che magari, ancora una volta, sceglierà di non mangiarci.

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