Recensioni / Guida pratica al ridicolo altrui

Su cosa sia l’umorismo si arrovellano da secoli e ancora non sono arrivati a una risposta. Reazione al dolore? Aggressività verso il mondo? Antidoto al fanatismo? Cinismo, crudeltà? O al contrario: empatia, amore? È intelligenza? È una cosa stupida (il riso abbonda sulla bocca degli umoristi)? È lecito, è sbagliato (pensiamo al dibattito di questi mesi su Charlie Hebdo)? È sano, è malato? L’umorismo è umorale, immorale, amorale?
Facci ridere, c’è ben poco da ridere, tu ridi. Forse è tutte queste cose, ma poi è tanto doveroso fornire una definizione? Analizzare l’umorismo è un passatempo per persone prive di umorismo, pare abbia detto Robert Benchley (non so chi sia, ma suona bene). Non solo: è mai possibile classificare qualcosa di così elusivo, dipendente dal carattere personale e nazionale, dalla lingua e dal contesto, dal periodo storico e da quello individuale, dai costumi e dalle epoche, dalle latitudini e dalle abitudini?
Un uomo scivola su una buccia di banana e nessuno ride o forse tutti o forse solo qualcuno. Sono riusciti a definire Dio, scriveva Umberto Eco, ma questo ancora non si può spiegare. Che ridere. Di sicuro esiste una specialissima categoria di umorismo che non nasce di proposito. Da cosa scaturisce? Come definirlo? Ci prova adesso questo regesto intitolato appunto Umorismo involontario, pubblicato da Quodlibet (pp. 282, € 16,50), scritto da Paolo Albani. Oltre che poeta visivo (non ridete, fa ridere davvero) e membro dell’Oplepo (l’Opificio di Letteratura Potenziale), Albani è un umorista volontario: si è consegnato all’ingrato mestiere e l’ha tradotto in poesie, performance, scritture, libri non solo umoristici ma anche serissimi, serissimi perché divertenti, spassosi perché autorevolissimi, tra cui Forse Queneau. Enciclopedia delle scienze anomale (Zanichelli, 1999), Mirabilia. Catalogo ragionato di libri introvabili (Zanichelli, 2003), Dizionario degli istituti anomali nel mondo (Quodlibet, 2009) e I mattoidi italiani (Quodlibet 2012).
Come si può evincere, (s)ragiona da tempo sulla zona grigia del ridicolo, del bislacco, del buffo, con grande rigore. L’umorismo, pare dire, è una cosa seria, tanto seria che qui, in epigrafe, una frase di Carlo Dossi lo accomuna assennatamente al sapere: “La scienza dubita, e così l’umorismo”. È un perfetto esergo all’indagine che Albani e una buona fetta di affiliati alla collana di Quodlibet denominata Compagnia Extra, e prima ancora a una rivista che si chiamava Il Semplice, conducono da parecchi anni.
Quando si verifica, allora, l’umorismo involontario? Giulio Ferroni spiegava che nella comicità servono tre punti d’appoggio, come per reggere uno sgabello: un soggetto che vuole provocarla, uno spettatore che può recepirla e un oggetto comico che ne sia vittima. Nel caso in questione, soggetto e oggetto finiscono con il coincidere, per il diletto dello spettatore, che per certi versi, grazie all’individuazione della comicità accidentale, ne diventa anche un poco artefice. (Che cosa accada allo sgabello a quel punto è immaginabile.)
Di conseguenza Albani, in quanto redattore di questo catalogo di bêtises, diventa forse l’umorista volontario dell’umorismo involontario, idem noi che leggiamo con lui, sebbene a ridere di tutti questi sventurati (o fortunati) esempi di persone e situazioni stralunate alla lunga si finisce col domandarsi quante volte siamo stati noi protagonisti di analoghi sfondoni. Chissà gli innumerevoli episodi in cui abbiamo fatto ridere senza volerlo, senza rendercene conto, denudati felicemente della nostra trombonaggine per approdare al campo innocente, ingenuo, immacolato degli sprovveduti.
Il catalogo, eruditissimo, spazia dal campo medico (il paziente di Oliver Sacks che sente la voce del celebre neurologo dirgli: “Prenda soprabito e cappello, salga sul tetto dell’ospedale, e salti giù”; quando Sacks gli assicura di non avere mai pronunciato quella frase, anche perché era altrove, lo invita la volta successiva a guardarsi intorno e controllare se il medico è presente, ma quando la voce del supposto Sacks si ripresenta e invita di nuovo il paziente a buttarsi, chiosa astutamente: “Non c’è bisogno che si guardi intorno, perché io sono davvero qui presente”) a quello poetico (impareggiabile è la storia del peggior poeta in lingua inglese mai esistito, un certo William Topaz McGonagall, morto nel 1902, il quale scoprì tardivamente la vocazione e subito compose un poema in onore di un ponte, ponte che un paio d’anni dopo, durante una terribile tempesta, crollò mentre passava il treno per Edimburgo: schiattarono ottanta passeggeri [ridere è una faccenda di tempo], ma lui niente, ostinato, scrisse un poema anche sul disastro, e infine, quando il ponte venne ricostruito, compose una terza ode in onore della nuova struttura, stavolta “strong enough all windy storms to defy!”).
E poi da quello editoriale (le proposte balzane si sprecano, ma vince la suora che propone come blurb: “Questo libro è piaciuto moltissimo a Dio”) a quello burocratico (si legge sulla cosiddetta legge Gasparri: “Lo spettro elettromagnetico costituisce risorsa essenziale ai fini dell’attività radiotelevisiva”, che – chiosa l’autore – sarebbe come dire, in una legge sulla produzione della lana che “l’atmosfera costituisce risorsa essenziale ai fini della vita della pecora”), da quello politico (i bushismi hanno vette impareggiabili e voglio solo ricordare vertiginose tautologie come “È chiaramente un bilancio, ci sono un sacco di numeri” o “Ciò che è più importante per me è ricordare qual è la cosa più importante”) fino a quello religioso (i Marcioniti ammettono un battesimo post mortem: avviene con un seguace vivo posto sotto il corpo che risponde al posto del morto e si dichiara lieto del battesimo). Nessuno, volente ma soprattutto nolente, viene risparmiato.
Seguono divagazioni linguistiche sul cocoliche, un ibrido di castigliano e calabrese nato dagli sforzi per farsi capire di un teatrante emigrato in argentina; ma anche sull’ambiente della camorra, che da sempre sforna soprannomi esilaranti: chi l’avrebbe detto che da un tipo serioso come Saviano potessero arrivarci meravigliosi “contronomi” (soprannomi in napoletano) come ‘o mussuto, il baccalà, per la pelle bianca oppure pavesino, perché – ebbene sì – si porta dietro sempre i pavesini.
A volte l’errore è così fecondo da far scaturire qualcosa di più apprezzabile, inaspettato, meraviglioso, come quando Alberto Savinio elogia un refuso (“disegno a contorno” in luogo di “disegno a carbone”) che l’aveva fatto fantasticare su chissà quale nuova tecnica, o come nei “malapropismi” (da Mrs Malaprop, personaggio di una commedia irlandese che infila una sgrammaticatura dopo l’altra).
La gaffe, l’inciampo, il lapsus generano un (non)senso inatteso, molto più interessante del gioco di parole voluto, troppo cervellotico e saputello, tanto che perfino Ionesco prese ispirazione per una delle sue commedie più celebri dall’effetto comico fortuito di un libro di grammatica inglese. Scienziati folli, inventori scombinati, petrolinismi involontari (Pietro Nenni: “Ora bisogna decidere, non ci resta che astenersi” – e quanto racconta di politica italiana), l’inventario di Paolo Albani ospita una folla di antieroi rocamboleschi (ce n’è anche e soprattutto per Pierre-Alexis Ponson du Terrail, l’autore del popolare ciclo di Rocambole, 22 volumi usciti nel giro di pochi anni, che rileggeva poco ed era capace di perle come: “Odo il passo di un mulo… È il mio amante”) che ci ricordano quanto siamo ridicoli, o forse risibili, quando diventiamo l’uomo che cammina e insieme la buccia di banana che l’attende.