Recensioni / Giorgio Vasta, contento dei deserti

Lo sapevate che Snoopy ha due fratelli? (Io non lo sapevo; tra fratelli e sorelle il bracchetto dei Peanuts ne conta, in effetti, addirittura sette.) Sono agli estremi, Olaf e Spike: il primo, obeso e un po’ tonto, è del tutto embedded nella comunità umana; il secondo è invece scheletrico e, viceversa, ha scelto di separarsi da tutto: se n’è andato nel deserto, in un posto dal toponimo parlante, Needles, dove filosofeggia sulla propria solitudine («Non voglio che più nessuno soffra a causa mia») dialogando coi cespugli, i cactus, i sassi levigati dalle raffiche di vento – per i quali ostenta una devozione che può ben dirsi amore. Quando capita davvero a Needles, nel corso della sua peregrinazione «nei deserti americani», Giorgio Vasta inscena un lunare dialogo proprio con Spike (alcune delle sue strip punteggiano la narrazione, insieme alle immagini «sebaldiane» dell’architetta e fotografa Giovanna Silva – compagna di viaggio e ideatrice della non solo tipograficamente splendida collana Humboldt, sino a questa uscita co-edita da Quodlibet, nella quale esce l’atteso ritorno di Vasta, a sei anni dal magnifico Spaesamento). Chi conosce Vasta sa quanto sia anche lui magro; è uno che pare voler confermare la frase di Kafka – se ne intendeva, chi aveva scritto L’artista del digiuno –, secondo il quale «la magrezza è una forma ingenua di intelligenza». Spike, il suo avatar, gli dà l’impressione di «essere colmo non tanto di una tristezza tradizionale, e neppure di amarezza, ma di una malinconia costitutiva e inalterabile: superba». Cos’ha a che fare con l’amore, il deserto? Sono più o meno la stessa cosa: «il mio amore è una superficie orizzontale», spiega Spike, «una distesa interminabile».

Allegoria della privazione assoluta, il deserto è da sempre scenario di passioni e tentazioni totalitarie ma rientrate, denegate, scavate in se stesse: tali da riapparire solo in forma di sogni, deviazioni, miraggi (ultimo interprete di questa tradizione, in forma deliziosamente parodica, l’Ermanno Cavazzoni degli Eremiti del deserto, «Compagnia Extra» Quodlibet 2016). Ed è infatti da una mancanza (la cui natura di «coautrice del libro», forse senza necessità, viene esplicitata verso la sua fine) che prende le mosse il viaggio di Vasta: il quale, prendendo l’aereo per Los Angeles, ricorda che in sogno gli è stato rubato qualcosa, ma non riesce a ricordare cosa. Una mancanza fondante, di norma, attrae però il suo contrario: un’esuberanza linguistica, una prorompenza bigger than life sempre affamata di dettagli. Tale è Absolutely Nothing (il titolo è preso da un cartello stradale dall’incongruo puntiglio: ABSOLUTELY NOTHING – NEXT 22 MILES): intanto strutturalmente perché, come tutti i titoli della serie Humboldt, lo scrittore è accompagnato – oltre che dalla tour-manager Giovanna, anzi «Silva» come la chiama Vasta (sempre razionale e googlatissima, prodiga d’ogni tipo di baedeker e didascalie, «una via di mezzo tra la Sibilla Cumana e Pico de Paperis») – da un fotografo che «doppia» coi suoi scatti, nell’ultima parte del libro, l’itinerario sino a quel momento seguito a parole. Stavolta si tratta di Ramak Fazel, artista americano d’origine iraniana: che nella narrazione di Vasta incarna un principio, di digressione ed eccedenza, opposto a quello incarnato da Silva (va a finire che a un certo punto, col fuoristrada, per pochi metri chaplinianamente finiscono in Messico: sarà un’impresa, poi, rientrare di qua dalla frontiera).

Soprattutto però, a incarnare questa eccedenza rientrata, disforica, è la scrittura di Vasta. Che appare oggi, insieme a Francesco Pecoraro, il più conseguente continuatore di Gadda. Un Gadda però deprivato del suo comico tonante (si ride anche, nel deserto, ma a denti stretti), per vedersi ricondotto a un suo etimo segreto: la pena sottile, ma incline a debordare in voragini, per l’inclassificabilità, l’inordinabilità delle mille digressioni, delle mille eccedenze del mondo. Così che l’incontro con quest’America rientrata, calco segreto di se stessa, appare a posteriori – per Vasta – inevitabile. Tutto ciò che la sua ideologia propaganda come luccicante e aggressivo, nuovo di pacca, qui appare regredito, desolato, abbandonato: dagli aerei depositati «come costruzioni megalitiche» nel Mojave o a Davis (gli stessi che hanno ispirato il DeLillo di Underworld) alle mitologie ufologiche di Roswell, dalle installazioni riciclate di Slab City alla quieta attesa della morte dei «disabitanti» di Bombay Beach (dove Ramak nota la frequenza con cui nel deserto si rifugiano gli obesi: gli Olaf, non gli Spike…) sino al magnifico ippodromo isolato nel nulla, Trotter Park in Arizona: perfetta allegoria dell’America tutta, un cristallo dei futuribili Sixties, oggi archeologia. Qui Vasta si fissa davanti alle scale mobili sfasciate e immobili: anche «il tempo è una cosa inaridita». Ramak insiste per fare una puntata a Las Vegas, sembra davvero fuori tema ma così non è: Las Vegas è una sorta di iper-America, semplicemente una ghost town che, a differenza delle mille altre nel deserto, ce l’ha fatta: facendosi da sogno bislacco di un utopista, in the middle of nowhere, mito collettivo.

Come l’amore la scrittura stessa, riflette Vasta, ha molto a che fare col deserto. È la risposta, pietosamente umana, all’eccesso di tutto quello che non si può dire. Nell’Assolutamente Nulla, come nel deserto punteggiato di scorie in cui vaghiamo attoniti, occhieggiano mille Nonnulla fatti di parole. Quelle che, come Spike, rivolgiamo alla sabbia, al vento.

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