Recensioni / La mia Africa e tante altre tribù. E se i veri selvaggi fossimo noi?

C’è Alvar Nunez Cabeza de Vaca, che partì nel 1527 alla scoperta della Florida e coi suoi venne accolto dagli indigeni prima come invasore, poi come "figlio del sole", capace di guarire ogni malanno. E c’è il francese René Canile, che nell’Ottocento voleva raggiungere Timbuctù, la leggendaria porta del Sahara, quando l’unico modo era fingersi, con esiti maldestri, musulmano. E ancora c’è Bronislaw Malinowski, che negli anni Trenta del secolo scorso credette di avere scovato tra i nativi dell’arcipelago delle Trobriand una società davvero libera nei costumi sessuali, mentre decenni dopo i vecchi nativi ricordavano ancora lo strano uomo bianco che faceva domande imbarazzanti sulla loro vita intima. E ci sono infine i Cannibal Tours, organizzati alla fine del secolo scorso, da agenzie che promettevano ai clienti «il viaggio più esotico che si possa fare al mondo», portandoli a vedere gli ultimi cannibali. Sono alcune delle incredibili storie che compongono il libro di Jean Talon Incontri coi selvaggi (ed. Quodlibet): racconti imbastiti su diari e taccuini che per secoli etnografi, esploratori, antropologi hanno compilato per dar conto dei contatti tra l’uomo bianco e gli indigeni, riscritti oggi con sguardo ironico e acuto.
«Sono storie – spiega l’autore, che presenterà il libro alla Zanichelli il 14 ottobre alle 18 – in gran parte ricavate dalla letteratura etnografica, nell’arco fra la scoperta dell’America e la fine del ‘900, alle soglie cioè della globalizzazione. Ma se l’etnologia tende di suo alla generalizzazione, io mi sono concentrato sulle storie minori di quei viaggiatori, frutto di incontri concreti e singolari, i cui elementi ricorrenti sono i fraintendimenti, le truffe reciproche, la meraviglia del primo incontro». Messi in ordine cronologico, disegnano una sorta di parabola, che dice molto sul tema universale, e attualissimo, dell’incontro con l’Altro.
D’altronde Talon ha origini blasonate, sia per famiglia (una delle più antiche bolognesi, i Sampieri Talon), sia per radici letterarie, visto che i suoi esordi nella narrativa sono in seno alla rivista «Il Semplice», almanacco nato negli anni Novanta da Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni. Tanto che lo stesso Talon fu, oltreché compagno di viaggio, uno dei personaggi del libro di Celati Avventure in Africa.
«Il primo nucleo di questa raccolta fu un il racconto Un africano del Fuladu a Bologna, che pubblicai sul “Semplice”. Ispirato a una vicenda vera, narra di Diawnè Diamanka, un cantastorie fulbe, un’etnia dell’Africa sub-sahariana composta prevalentemente da pastori nomadi. Non era mai uscito dal suo paese, ma nel 1988 fu invitato a trascorrere un periodo in città da un gruppo di antropologi europei, in modo che potesse compiere osservazioni etnografiche sugli usi e costumi del nostro mondo». Il risultato sono alcune delle pagine più spassose del volume. Giunto a Bologna, Diawnè nota ad esempio che le nostre case sono simili a quelle delle termiti, che la vita qui è molto cara, che per strada si vedono uomini o donne che vanno in giro legati a un cane, che quando qualcuno si soffia il naso conserva il muco in tasca avvolto in un fazzoletto. E ancora, invitato a un concerto di musica sinfonica, annota che tutti sono molto tristi. L’esperienza più spaventosa gli capita però in treno, quando si trova di fianco una signora impellicciata, che scambia per un animale pericoloso. Da quel che Diawnè vide sotto le Torri, portò a casa una canzone sulle strane abitudini dei bolognesi che ancora la gente del suo popolo va cantando. Tanto per ricordarci che la diversità è sempre negli occhi di chi guarda.