Recensioni / Spazio, metonimia di una mancanza

Le vicende soggettive del protagonista prevalgono sull`illustrazione oggettiva del contesto: una guida di viaggio che si trasforma in romanzo, formando una sorta di ecosistema esistenziale

Come si racconta lo spazio? Da alcuni anni, la questione è al centro degli studi letterari, da quando cioè il cosiddetto spatial turn ha revocato in dubbio la centralità del tempo come asse e coordinata decisiva nella narrazione. In effetti, non si tratta di privilegiare o escludere l’una o l’altra categoria, ma di rendersi conto che il tempo può essere raccontato attraverso lo spazio, può manifestarsi e consistere nei paesaggi e negli ambienti. Può farsi tempo materiale. L’allusione al titolo del primo importante libro di Giorgio Vasta non è accessoria: Vasta è probabilmente il narratore italiano contemporaneo che meglio è riuscito a localizzare il tempo, a farne uno spazio e a costruire il racconto sulla base di questa metamorfosi.
Spazio, non solo come tema o sfondo, ma come ecosistema esistenziale, in cui il soggetto percepisce sé stesso e le relazioni con gli altri che vi abitano. Per questo, il cambiamento, la sottrazione di un elemento nel sistema, esige una totale riconfigurazione del proprio ambiente. È questa esperienza di spaesamento (ancora un suo titolo) e dislocazione che Giorgio Vasta ha raccontato nel libro firmato insieme al fotografo Ramak Fazel (autore degli scatti riprodotti alla fine del volume, oltre che personaggio della storia): Absolutely Nothing Storie e sparizioni nei deserti americani (Quodlibet Humboldt, pp. 296, € 22,50).

Una mappa della catastrofe
Il libro, in cui s’incrociano narrazione e documento, fiction e nonfiction, testo e fotografia, fa parte di una collana sui viaggi e sui luoghi: guide d’autore dall’Etiopia alla Grecia, dall’Islanda alla Martinica. L’itinerario americano percorso da Vasta ha condotto lui e i suoi compagni (Fazel e Silva) attraverso California, Arizona, Nevada, New Mexico, Texas e Louisiana. «Absolutely nothing - next 22 miles»: da questa scritta quasi surreale, su un cartello di una strada che si perde nel deserto, proviene il titolo.
La particolarità del libro è che la narrazione mette in scena la trasformazione della guida di viaggio in romanzo. Mentre leggiamo, infatti, la vicenda soggettiva del protagonista prevale sull’illustrazione oggettiva del contesto: nel momento in cui le «persone si fanno personaggi, la tortuosità si innalza a metodo e la carrozza del baedeker si trasforma nella zucca di una scrittura che soprattutto suppone, finge, si arrangia, mente». Così, il piano realistico può facilmente inclinarsi verso l’immaginazione: dal sogno iniziale, in cui il narratore sa che gli è stato rubato qualcosa ma non sa dire cosa; alla visione finale di una nube nel deserto, da cui escono cinque figure, paradossali più che minacciose, arrivate lì per divorare i tre protagonisti. È una scena, questa, che ossessiona ma attrae il narratore, ed è ispirata dal motivo cinematografico della famiglia antropofaga, ricorrente nell’immaginario americano.
Non è l’unico topos di questo genere. Absolutely Nothing è infatti anche una mappa della catastrofe, in cui emergono implicite ed esplicite memorie culturali: da Underworld di DeLillo a Beasts of the Southern Wild (il film di Benh Zeitlin, del 2012); dal personaggio di Spike dei Peanuts (le sue strisce a fumetti scandiscono il racconto), che si anima in un’altra sequenza onirica del libro, al negozio di Prada nel deserto (in realtà una famosa installazione dei danesi Elmgreen e Dragset).
Giorgio Vasta mostra di aver ben assimilato il codice del postmoderno apocalittico, di saper cogliere i segni del disastro. Sa cosa fare con lo spazio, evitando sia la tipicità locale sia la vaghezza allegorica: è qualcosa «che non è possibile stimare in metri o acri perché eccede ogni tentativo di misurazione». Il suo limite, qui, è semmai quello di esibire i propri riferimenti, di ribadire effetti stranianti già acquisiti nelle prime pagine. Insistente è anche la ricerca di suggestività nella scrittura, con esiti a volte sentenziosi e perentori, a volte un po’ concettosi. Questi, insieme alla forma dell’elenco (per lo più di oggetti e residui: con Orlando, Gli oggetti desueti, parleremmo di un ritorno del represso antifunzionale), sono i tratti più marcati di uno stile che resta comunque sicuro.
D’altra parte – l’autore ci aveva avvertiti – qui «la tortuosità si innalza a metodo», come si vede anche nella costruzione del racconto “a tornanti”: le volute della narrazione alternano al resoconto del viaggio la prospettiva temporale di un presente sfasato, in cui il narratore è tornato a Roma e parla via Skype con Ramak in California: «“E il viaggio che si avvera, dico.” “Il viaggio è passato.” “No, ribatto, c’è molto di più adesso di quanto ci sia stato mentre accadeva.”». Infatti il tempo si ripiega ancora e siamo di nuovo sulle strade americane; ma non si tratta solo di un’anacronia; tra i due momenti il raccordo è minimizzato, così da dare un effetto di accostamento più che d’intersezione. Ancora una volta il tempo, privato di uno svolgimento, è localizzato in blocchi, tenuti insieme da un concetto spaziale: il vuoto, il riassorbimento.

La casa svuotata
«Ogni viaggio» pensa il narratore «crea il suo punto di sparizione: desidera, raggiunto un culmine, dissolversi». Quel desiderio è soprattutto aspirazione a colmare una distanza, non tanto geografica quanto emotiva e mentale: la distanza tra il narratore e la persona perduta, della quale il furto sognato, il deserto, il cannibalismo erano figure. Con un procedimento simile a quello adottato da Winfried G. Sebald in grandi libri sui luoghi (anzi: sul tempo rimosso che si ripresenta nei luoghi) come Gli anelli di Saturno e Austerlitz, Vasta ha trattato lo spazio, le storie, le fotografie, quali metonimie di una mancanza, di un altro deserto, quello della casa svuotata: «absolutely nothing è in realtà absolutely nobody» e dunque «l’oggetto di queste pagine è la sparizione di una persona». Anche qui Vasta è esplicito, forse troppo: ma ne valeva la pena, perché quando si è capito come far conrispondere lo spazio interiore e la forma del mondo, non resta che scriverlo.

Recensioni correlate