Recensioni / La città italiana secondo Boeri

Possediamo un ricordo preciso anche degli anni che non abbiamo vissuto. 111966 evoca il tour mondiale di Dylan con la Band, finito con uno schianto in motocicletta in un pomeriggio di fine giugno, i concerti fischiati da chi andava ad ascoltare il menestrello acustico e invece ritrovava le ballate folk sepolte sotto chili di watt, irriducibili ai tentativi di comprensione dei contemporanei. Il 1966 è anche l`anno di tre grandi libri di architettura, che segnano una cesura netta con tutto ciò che li aveva preceduti: Il territorio dell`architettura di Vittorio Gregotti, L` Architettura della città di Aldo Rossi e Il significato delle città di Carlo Aymonino. Tre viaggi al termine della notte, incursioni nelle strutture invisibili della città, che vanno oltre la crosta superficiale delle forme urbane, spingendosi quindi nelle profondità dei fenomeni e percorrendo uno stesso territorio con la forza romantica di un nuovo genere letterario. Ad accorgersi del rapporto strettissimo fra i tre testi, della loro "sostanziale omogeneità", è Stefano Boeri, nel corso del dottorato di Pianificazione territoriale svolto presso l`Istituto Universitario di Architettura di Venezia, nel 1983-1987. Sono anni di profonda insoddisfazione per «il modo in cui, nelle discipline urbanistiche, si dava allora conto della condizione urbana. Della città come luogo vitale e abitato; della città come palinsesto di epoche e di simboli; della città come spazio economico e come luogo di proiezione dell`immaginario collettivo e delle memorie individuali». Con gesto radicalmente new wave, Boeri sceglie allora di occuparsi di questo trittico fondativo di una nuova letteratura di genere, aprendo così il file di un libro continuamente riscritto negli ultimi trent`anni, fino a vedere oggi la luce per la collana "Habitat" di Quodlibet, col titolo La città scritta. Il territorio scelto come campo d`osservazione è all`intersezione tra il dibattito esistente nell`architettura italiana negli anni Sessanta e l`influenza dell`analisi strutturalista - che Aymonino declina attraverso i canoni dello storicismo marxiano; Gregotti dispone in funzione dei suoi interessi per la fenomenologia, lo studio di Merleau-Ponty e la frequentazione di Enzo Paci; mentre Aldo Rossi sembra suggestionato soprattutto da psicanalisi e geografia umana. Ai quali Boeri aggiunge due ritratti inediti di due figure cruciali come Bernardo Secchi e Giancarlo De Carlo. Se oggi le "bozze di questo libro imperfetto" conservano una loro urgenza è però grazie alla capacità di andar oltre le categorie dell`analisi linguistica e semiologica, sovrapponendo allo scavo sui tre libri la lettura di altrettante architetture realizzate negli anni immediatamente successivi al 1966: il complesso del Monte Amiata al Gallaratese per Aymonino, l`Università della Calabria per Gregotti e il Cimitero di Modena per Aldo Rossi. Opere/manifesto, destinate però a una rapida decadenza rispetto alle intenzioni dei progettisti, e perciò capaci di svelare la «schizofrenia di una disciplina che mai s`interroga sugli esiti fattuali delle proprie intenzioni». L`esegesi dei testi e la verifica sul campo consente a Boeri di muoversi come un pendolo tra la "città interna" esistente nel pensiero di ciascun architetto e la "città esterna" e "consensuale", costituita di fatti e forme urbane di cui tutti condividiamo la rappresentazione. Ma anche luogo della solitudine radicale dell`architetto, dell`impossibilità di generare automaticamente una lingua accessibile a partire dallo sforzo di concettualizzazione dello spazio. È questa la notte cui accennavamo, e non è un caso che sia occorso così tanto tempo per chiudere provvisoriamente un libro che appare ancora come un punto in movimento, per la capacità di riaprire un discorso sulla città che getta un ponte al di là dell`esaurimento di tutte le sue narrazioni.