Recensioni / Masbedo, intervista

Handle with care è una mostra tra Firenze e la Reggia di Venaria, progetto di The Classroom di Paola Nicolin

Apre in questi giorni tra Firenze e Venaria (a Venaria il 29 ottobre) Handle with care, il nuovo progetto dei MASBEDO, duo artistico formato da Nicolò Massazza e lacopo Bedogni, all’interno di the classroom , centro di arte e educazione inaugurato nell’aprile del 2016 a Milano da Paola Nicolin con Giovanna Silva e Giulia Mainetti.
Se the classroom è arrivato al suo terzo appuntamento, dopo il corso e la mostra a Milano con Adelita Husni-Bey e la partecipazione di Hilario Isola alla Biennale di Marrakech, i MASBEDO sono ormai un riferimento nel panorama artistico contemporaneo: con la loro ricerca tra video e performativo hanno partecipato nel 2011 alla sezione Art Unlimited della fiera d’arte di Basilea, hanno recentemente esposto al MAXXI di Roma, al Mart di Rovereto, al Padiglione Italiano della 53° Biennale di Venezia, sono in collezione in musei come GAM Galleria d’Arte Moderna di Torino, MACRO Museo di Arte Contemporanea di Roma, DA2 Museo di Arte Contemporanea di Salamanca, CAAM Centro Atlantico di Arte Moderna di Las Palmas, Junta de Andalucia, CAIRN Centro di Arte Contemporanea di Digne, Tel Aviv Art Museum, e hanno partecipato a film festival tra Locarno, Roma, Istanbul, Lisbona, Atene e Miami. Oltre a collaborare con lo scrittore francese Michel Houellebecq.
Abbiamo chiesto direttamene a loro di raccontarci le diverse espressioni e momenti di questo ultimo progetto, che si articola tra un video a più canali realizzato in questa occasione all’interno dell’Opificio delle Pietre Dure in Firenze e il Centro Conservazione e Restauro di Venaria, una mostra negli spazi della reggia e una serie di momenti a Firenze centrati sulla presenza degli artisti stessi.

ZERO: Come è nato il vostro nuovo progetto insieme a the classroom, Handle with care?
Nicolò Massazza: Noi conosciamo Paola Nicolin ormai da diversi anni: ci siamo incontrati alla fiera di Basilea ormai sette anni fa e al di là della simpatia – una cosa che c’era già per fortuna – nel tempo ci siamo in un certo senso “annusati”. Noi stavamo facendo un percorso, e abbiamo voluto trovare il giusto tempo per questa collaborazione. C’è un tempo preciso per ogni cosa, ed evidentemente abbiamo iniziato a stimolarci l’uno con l’altro nel momento giusto!
Paola è venuta a seguirci in occasione della nostra ultima mostra presso il Mart di Rovereto, Sinfonia di un’esecuzione, ha visto il Flauto Magico che abbiamo fatto insieme a Mariano Furlani al Teatro Filarmonico di Verona, e da lì ci ha chiesto su cosa stessimo ragionando. La nostra risposta è stata un progetto che era nato quando eravamo stati ospiti da Jan Fabre per una performance: a Gent era in corso il restauro della pala di Hubert e Jan Van Eyck, e la cosa ci aveva affascinato subito. Raccontandolo a Paola, è stata lei a suggerirci di portare l’idea all’interno di the classroom, che noi già conoscevamo: era interessante l’idea di costruire un progetto che è un trittico in realtà, diviso tra un libro, una mostra in due atti e un corso.
A noi le cose complesse piacciono…

Nella presentazione di Handle with care voi parlate di questo progetto come una riflessione personale sul tema del restauro e della cura dell’immagine. Che cos’è per i MASBEDO questa immagine, considerando come nel vostro lavoro sia stata declinata in così tanti modi?
Iacopo Bedogni: Questa in particolare è una nuova declinazione a partire da una più ampia riflessione sulla natura dell’immagine: ci interessa indagare non solo quale sia l’immagine che creiamo, ma anche l’immagine che rimane nella memoria. Forse Handle with care è anche la nostra prima riflessione sulla storia dell’arte, o perlomeno sulla storia dell’immagine appunto. Una cosa che in Italia manca tantissimo è un corso sulla cultura dell’immagine, cosa che riteniamo fondamentale in una società come la nostra dove l’aspetto visivo è sempre più predominante!
Per questo ci piaceva partire dal restauro, ma senza realmente nessuna competenza tecnica e scientifica precisa riguardo al settore: ci siamo buttati in maniera inconsapevole ma con grande curiosità, con lo sguardo scevro da qualsiasi conoscenza, e abbiamo notato delle implicazioni estremamente interessanti, sia rispetto a quello che noi produciamo a livello di performance video sia rispetto all’idea di misurarsi con quello che è l’opera d’arte, e dunque l’eterno, e con il suo paradosso che è l’utopia dell’eterno.
L’eterno dell’opera d’arte ha in sostanza bisogno di una cura!
NM: … e di utopia!
IB: Ci siamo avvicinati con questa modalità, e da lì sono nate tutta una serie di aperture, che come spesso ci capita con i nostri lavori si sono create mentre stavamo girando e costruendo a livello simbolico delle libere associazioni, che sono diventate quindi una nostra idea riguardo al prendersi cura di un’opera, della memoria, della permanenza dell’immagine e della sua percezione.
NM: Siamo andati con due camere e abbiamo avuto un atteggiamento performativo in quel momento, nel senso che abbiamo iniziato a riprendere delle cose. È interessante come facendo questo notavamo che i gesti che loro fanno, gli strumenti che loro utilizzano erano vicinissimi a quelli che noi utilizziamo nelle nostre performance dal vivo, dunque a un certo punto ci siamo resi conto che stavamo realizzando inquadrature che possono certamente raccontare il tema del restauro, ma come diceva prima Iacopo aprivano ad altri simboli. I significanti in questo lavoro continuano a spostarsi.
Immaginate quanto possa essere affascinante vedere delle macchine robotiche che lavorano su una tela che rappresenta un’estasi, con una tecnologia che in quel momento sembra quasi invasiva, che inquadrate in una certa maniera possono apparire come respiratori tecnologici che vanno ad annusare l’estasi del quadro… Noi abbiamo creato delle immagini che spostavano ogni volta il significante: chi vedrà il lavoro si deve preparare ad essere investito dalle associazioni libere. Noi ultimamente stiamo lavorando molto su questo aspetto, chiediamo allo spettatore un passaggio in più: non solo di affascinarsi su un piano retinico, ma di costruire intorno all’immagine il suo significato, il suo simbolo.

Voi quanto tempo siete rimasti a filmare tra l’Opificio delle Pietre Dure in Firenze e il Centro Conservazione e Restauro di Venaria?
IB: Ci abbiamo passato molto tempo! Abbiamo organizzato due lunghe sessioni, una a Venaria prima dell’estate e una all’Opificio in luglio: ovviamente prima abbiamo fatto alcune visite per capire questi luoghi, com’erano organizzati i vari reparti e anche dove era possibile girare e cosa era possibile riprendere. Ci sono opere con molti vincoli: per l’Opificio ad esempio abbiamo incontrato il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, a cui abbiamo dovuto presentare il progetto per ottenere i permessi di riprendere alcuni quadri: in questo momento sono conservati lì lavori davvero importanti, su tutti l’Adorazione dei Magi di Leonardo che da quattro anni è in restauro e sarà presto presentata agli Uffizi.
Questo ad esempio avevamo il vincolo di non riprenderlo, oppure riprendere dei macro.
Però alla fine, come si vedrà nel lavoro, ci siamo quasi disinteressati del soggetto principale, del quadro e della rappresentazione, e ci siamo dedicati invece alla messa in opera, alla cura. E questo con due modalità completamente differenti: la cura personale dell’uomo – l’avvicinarsi dei restauratori all’opera con una pratica manuale che è quasi da miniaturista medievale – e la cura tecnologica, con strumenti costruiti ad hoc per questi istituti dal CNR e da altre realtà. Sono davvero strumenti scientifici e analitici.

Questo è anche più funzionale a un vostro discorso fondato su associazioni libere…
NM: Certo. Un’altra cosa che abbiamo trovato assolutamente sorprendente è come ad un certo momento ci siamo concentrati su un aspetto che oggi nell’arte è difficilissimo vedere. Questa è una mostra dove gli artisti non ci sono.
Per spiegare meglio questo concetto, pensate che l’esposizione a Venaria si apre con la macchina di Gino De Dominicis – l’artista per eccellenza svanito – e si chiude con questo nostro lavoro, a cui noi siamo molto legati, 30 luglio 2007, che è la data di morte di Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman. Quello che ci affascina è come qui non abbiamo fatto altro che prendere due scene finali, da una parte un viso di Monica e il desiderio che guarda verso la camera, dall’altra la distruzione finale di Zabriskie Point. Abbiamo solo preso due Super 16 e unito due fasci di luce, che sono così diventati una nuova immagine.
Può essere anche una mostra faticosa - ci sono solo artisti morti, svaniti in realtà! - e in un certo senso è il contrario di Marina Abramović – The Artist is not present –, ma c’è una sorta di attenzione verticale all’arte che viene fuori nel momento in cui noi iniziamo a inquadrare i restauratori che stanno a pupille dilatate sul dettaglio, passando magari mesi e mesi in solitudine per cercare di fare emergere il dito di una mano da una tela.
Come diceva prima Iacopo, diventava più interessante fare un lavoro di sottrazione: ieri scherzavo su come l’ultimo schermo sembrasse uno dei lavori estremi di Chantal Akerman!

Come si articola quindi il rapporto tra dimensione espositiva e il nuovo progetto che state realizzando?
NM: Abbiamo diviso tutto in due capitoli, scegliendo di organizzare a Firenze una tre giorni in cui noi portiamo il nostro esperimento live: avremo solo tre schermi su cui sarò possibile vedere i restauratori che lavorano nel dettaglio mentre noi cercheremo di relazionare a questi il nostro mondo performativo.

Inoltre immagino ci sia anche una componente che possiamo chiamare “didattica”, propria di the classroom.
IB: Abbiamo già parlato delle premesse progettuali al lavoro. I luoghi poi hanno sicuramente una loro importanza: a Venaria in particolare abbiamo a disposizione la Citronaia come spazio espositivo – una galleria di 160 metri di lunghezza – e questo è già di per sé un contenitore importante, con cui abbiamo cercato di dialogare e di far dialogare lo spettatore nel percorso, che viene affrontato con un’andata e un ritorno. The classroom si inserisce in tutto questo in maniera naturale: i momenti laboratoriali hanno un forte aspetto performativo – tipico del nostro lavoro –: a Firenze per tre giorni presenteremo una modalità da studio aperto – inteso come studio dell’artista ovviamente! – all’interno di una sede espositiva, dove cercheremo di relazionarci con quello che per noi è la creazione delle immagini durante una performance, mantenendo dietro di noi un lavoro che nasce da una performance dei restauratori stessi. Tutto si è fuso in maniera abbastanza naturale. Come funzionerà poi lo capiremo tra qualche giorno…
NM: La cosa affascinante è che noi abbiamo costruito tutti i lavori, sentiamo a livello concettuale la presenza di un’ossatura abbastanza precisa che include come dicevamo l’artista svanito e il ruolo delle date, dei numeri: il titolo del nostro lavoro con la macchina di De Dominicis è BB-547-CJ, la targa, contrapposto a una data importantissima per noi, 30 luglio 2007, in cui se ne sono andati due per noi fondamentali costruttori di immagini Dove sono quindi gli artisti? A Firenze saranno presenti di persona, li potrete vedere, mentre nella mostra di Venaria troverete invece un atteggiamento centrato sull’arte.
IB: A Venaria rimane quello che dovrebbe essere la base di qualsiasi opera, cioè lo sguardo dell’artista.
NM: Non sappiamo neppure come tutto questo verrà fruito dal pubblico: con la curatrice Paola Nicolin abbiamo avuto un atteggiamento di costruzione giorno per giorno del progetto, e infatti abbiamo insistito perché lei fosse presente durante le riprese e in tutte le fasi, dall'inizio, è un atteggiamento appunto da the classroom…
Sappiamo poi anche che stiamo chiedendo molto allo spettatore: ci saranno a Venaria sei schermi con un’immagine che si ripete, su cui vengono distribuiti quasi 45 minuti di film, più i due lavori di cui parlavamo prima BB-547-CJ e 30 luglio 2007. Ma per noi è una sfida.

ZERO: Il rapporto con luoghi e spazi è sempre centrale nel vostro lavoro. NM: Certamente. Poi in questa occasione avremo anche un libro, in uscita per Quodlibet, che si chiama Diario Psichico ed è l’analisi di una mostra di arte contemporanea e aggiunge un altro tassello, e abbiamo fatto anche un disco che sarà un’edizione d’artista…
Metterò insieme le due sonorità del progetto su Antonioni e Bergman, rifatte da questo collettivo bravissimo, Superbudda, che con Davide Tomat e Gup Alcaro hanno sonorizzato le due scene finali.

Questo progetto si articola tra Tra Torino e Firenze. Qual è invece la vostra città?
NM: Possiamo dirti tre amori? Siamo stati bene a Madrid, benissimo a Reykjavik, forse anche Ginostra… Per Milano poi è un bel momento.
IB: è veramente una domanda difficile: in questo caso vale molto in concetto che siamo in due. Io ad esempio in una città che amo molto e sento mia forse non riuscirei a lavorare ad esempio, ho bisogno di qualcosa che vada in opposizione. Ma il discorso è più ampio: la città dove siamo stati meglio forse come momento e rivoluzione di un lavoro è Reykjavik, anche se è già nel passato.
NM: Direi che è una città che mette d’accordo entrambi!